Chi è Esposito, il democratico che sfida molotov e no Tav

Marianna Rizzini

Stavolta non gli hanno scaricato dei polli morti davanti a casa, non l’hanno minacciato al telefono, per lettera o via Twitter (tutte cose già accadute). Stavolta tre bottiglie incendiarie sono state messe direttamente sullo zerbino del senatore piemontese del Pd Stefano Esposito, quarantaquattro anni, una compagna e tre figli piccoli. Un vicino di casa le ha trovate alle sette del mattino, e ha suonato il campanello. Esposito stava cambiando la sua bimba di tre mesi, l’ultima nata, poco prima di portare a scuola gli altri due (ai quali ha poi dovuto spiegare, con tutte le cautele ma anche con tutta la tensione del caso, che cosa fosse successo).

    Stavolta non gli hanno scaricato dei polli morti davanti a casa, non l’hanno minacciato al telefono, per lettera o via Twitter (tutte cose già accadute). Stavolta tre bottiglie incendiarie sono state messe direttamente sullo zerbino del senatore piemontese del Pd Stefano Esposito, quarantaquattro anni, una compagna e tre figli piccoli. Un vicino di casa le ha trovate alle sette del mattino, e ha suonato il campanello. Esposito stava cambiando la sua bimba di tre mesi, l’ultima nata, poco prima di portare a scuola gli altri due (ai quali ha poi dovuto spiegare, con tutte le cautele ma anche con tutta la tensione del caso, che cosa fosse successo). Oltre alle bottiglie c’era un biglietto anonimo, infilato nella cassetta della posta (testo: “Caselli in pensione, Bersani in rianimazione… i tuoi amichetti sono fuori gioco. Chiamparino non tornerà. Ora tocca a te ritirarti o fare bum bum, la scelta è solo tua. Torna in prefettura, la scorta non può più proteggerti…”). Si sente “stanco”, a questo punto, Esposito, uno che non ha mai nascosto il suo credo pro Tav (nel 2012 ha anche scritto il libro “TavSì” con Paolo Foietta e con introduzione di Pier Luigi Bersani). Stanco di “vivere come a Fort Knox”, con telecamere dappertutto ma non così dappertutto da evitare alla banalità del male di introdursi di soppiatto e spiare i movimenti di tutti i giorni (“nel biglietto”, dice Esposito, “c’era anche un riferimento al mio incontro di venerdì scorso con Massimo Numa, giornalista della Stampa minacciato ripetutamente dopo una serie di articoli sulla Tav”). Ma Esposito è anche stanco di dover sperimentare dal vivo la virulenza dell’insulto mutuato dal flusso incontrollato di bestialità da social network: l’altra sera ha congedato la scorta in anticipo sul solito orario e ha deciso per un fuori programma al cinema. Solo che i biglietti erano esauriti. Esposito si è allora fermato a chiacchierare fuori dalla sala, come fanno tutti, e però in quel momento è passato un tizio sconosciuto che gli ha urlato “sei una merda”, come fosse su Facebook, con la strafottenza dell’impunità, e a quel punto il senatore ha reagito in malo modo. Troppi gli episodi, troppo angosciante constatare che le parole da Cassandra avevano fondamento, troppo puntuale “l’escalation” che Esposito aveva previsto in questi anni quando parlava di “gruppuscoli” con “Dna violento” che si agganciano “alla protesta legittima di chi ha riserve sulla Tav” per dare “sfogo ad azioni mafiose, più che terroristiche” (Esposito è uno che nelle valli della protesta ci va, e gli capita di “prendere un caffè” con chi gli dice “sulla Tav siamo in disaccordo, parliamo”, ma può capitare anche che non lo facciano parlare). Per uno che “neppure si occupa di criminalità organizzata”, dice, le tre molotov di ieri possono segnare il punto-limite: “Potrebbe sembrare una resa, è quello che vogliono queste persone, ma nei prossimi giorni rifletterò e prenderò in considerazione anche l’idea di lasciare la politica; una passione civica, sì, ma non al punto da far pagare un prezzo così alto alla mia famiglia, visto che io sono tra i pochi – sempre gli stessi – che combattono questa battaglia”. Di essere impopolare per le posizioni sulla Tav Esposito l’aveva messo in conto, abituato com’è, fin dal 2001, a occuparsi di temi divisivi, dai termovalorizzatori all’alta velocità, ma non aveva messo in conto la dimensione psicologica, quel doversi confrontare con l’azione intimidatoria e non solo con le parole, e quel pensare ossessivamente all’uomo nell’ombra che osserva i suoi movimenti, come in una brutta copia di un brutto film di spie.

    Tra battaglia e tentazione di mollare
    Eppure, fino a poco tempo fa, Esposito l’aveva presa con allegria, la sua vena di uomo di partito non proprio amato nel partito. Il senatore infatti è di sinistra, con formazione ex Pci-Pds, ma non è socialdemocratico (quindi non è liberal ma neppure ventriloquo della linea Fassina). E’ antiberlusconiano, ma solo politicamente, non in senso giustizialista. Non è appiattito sulla Cgil (e nel 2011 era stato co-firmatario di un appello per rinviare uno sciopero generale). E’ stato bersaniano e poi cuperliano, ma se alle primarie gli avessero chiesto “chi vuoi come candidato premier?” invece di “chi vuoi come segretario del partito?”, avrebbe senz’altro votato per Renzi, e di Renzi e Letta ora dice: “Speriamo che davvero si fidino reciprocamente; speriamo di non ripeterci, vedi caso Veltroni”.
    Prima di arrivare in Parlamento (dov’è entrato per la prima volta nel 2008, come deputato), il senatore Esposito è stato militante semplice e a lungo consigliere di provincia (e capogruppo), ma la politica non è mai stata il suo unico mondo: per un periodo, prima di vincere il concorso in prefettura, ha fatto anche il casellante, e ha alle spalle un passato girovago come assistente di produzione per concerti rock. Erano gli anni Novanta, Esposito era poco più che ventenne, e la società per cui lavorava, la Trident Agency, l’aveva assunto al termine di una lunga convalescenza per infortunio (incidente in moto, mesi e mesi fermo, e un amico visionario che alla fine gli dice: “Ti va di imparare un mestiere divertente?”). Tra un montaggio e uno smontaggio palco, tra un delirio organizzativo e l’altro, tra gli U2, Jovanotti, Irene Grandi, Ramazzotti e Pino Daniele, Esposito accumula quattro anni di vita pazza, meravigliosa e stressante – abbastanza per dire “basta” e tornare al vecchio amore, la politica, seppure ancora come impegno saltuario. L’occasione grossa, per il giovane Esposito, figlio di un’operaia Fiat, si presenta nel 1996, l’anno di Romano Prodi, quando il segretario regionale dell’allora Pds, Alberto Nigra, lo chiama a dare una mano. Da allora, con qualche pausa, la “passione” è diventata incurabile (“sono un malato di politica”, dice). Ma tutto questo ora sembra non bastare per proseguire la lotta contro quello che Esposito, a Capodanno, dopo aver appreso la notizia di un lancio di pietre, bombe carta e bulloni contro le forze dell’ordine che presidiavano il cantiere Tav di Chiomonte, ha chiamato “manipolo di disperati” che “si nasconde dietro le bandiere No Tav”. E ieri, durante il percorso casa-scuola dei figli, Esposito ha pensato, forse per la prima volta, che “non valesse del tutto la pena” di combattere su quel fronte, e pazienza se ieri era anche il giorno in cui il tribunale del Riesame confermava l’arresto dei quattro attivisti No Tav in carcere da dicembre per l’assalto al cantiere del maggio 2013 (ipotesi di reato: “Assalto per finalità terroristiche”).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.