L'attività onirica di al Sisi
Yasir Rizk è da un anno il direttore di un giornale egiziano che si chiama Al Masri al Youm e simpatizza con il governo e voleva rendere un buon servizio al generale Abdul Fattah al Sisi, l’uomo più potente del paese, il reggente pro tempore che però aspetta di diventare reggente e basta (questa è materia complicata e se ne parla più avanti). A ottobre l’intervista ufficiale al capo militare è stata stampata con i dovuti tagli e aggiustamenti, ma la registrazione audio completa è finita nelle mani sbagliate – o giuste, dipende dai punti di vista – ed è uscita su Internet a dicembre. Rizk chiede al generale: “Aveva mai sognato di diventare il leader dell’esercito egiziano?”.
Yasir Rizk è da un anno il direttore di un giornale egiziano che si chiama Al Masri al Youm e simpatizza con il governo e voleva rendere un buon servizio al generale Abdul Fattah al Sisi, l’uomo più potente del paese, il reggente pro tempore che però aspetta di diventare reggente e basta (questa è materia complicata e se ne parla più avanti). A ottobre l’intervista ufficiale al capo militare è stata stampata con i dovuti tagli e aggiustamenti, ma la registrazione audio completa è finita nelle mani sbagliate – o giuste, dipende dai punti di vista – ed è uscita su Internet a dicembre. Rizk chiede al generale: “Aveva mai sognato di diventare il leader dell’esercito egiziano?”. Sisi risponde per nulla turbato: “Dell’esercito o di qualcosa di più grande?” e si lascia andare alla descrizione di quella che chiama “una lunga storia di sogni” cominciata 35 anni fa, a cui ha sempre fermamente creduto ma di cui non parla più dal 2006 – dice lui – per ragioni che non vuole spiegare. Il leader dell’esercito oppure di qualcosa più grande? La domanda è questa, sospesa sul cielo dell’Egitto, come a dire: non vorrete davvero che mi fermi adesso, non avete visto nulla, il meglio deve ancora venire. E comincia il racconto dei sogni.
Una notte appare il presidente Anwar Sadat per rivelargli che un giorno sarà anche lui presidente, al che il generale risponde: “Lo sapevo già anche io”. In un altro Sisi indossa un orologio Omega “con un’enorme stella verde sopra”, a cui lui attribuisce qualche misteriosa importanza. Quando nel sogno gli viene chiesto perché indossa un modello di orologio che nessun altro ha, lui s’impunta: “Questo orologio è mio. E’ un Omega e io sono Abdul Fattah”. Per chi non decifrasse al volo il simbolismo onirico del (forse) futuro presidente dell’Egitto: l’esclusivo Omega rappresenta il suo essere speciale e “internazionale”.
Provate un lieve senso di disagio? Ecco un altro sogno raccontato dal generale al direttore di Al Masri al Youm: lui impugna una spada rossa che ha incisa sulla lama la scritta: “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah”, la professione di monoteismo che è il pilastro dell’islam. Sisi ha il potere conferitogli da Dio di uccidere – la spada – e lo ha adoperato, perché la lama è usata, color del sangue, ma non c’è da preoccuparsi perché sta obbedendo a un mandato divino.
Non c’è neanche da dirlo: le avventure oniriche del generale hanno scatenato su internet una tempesta di sarcasmo e parodie, e Al Masri al Youm ha fatto partire un’inchiesta interna sul trafugamento dell’audio che per ora coinvolge tre giornalisti, ma tra tante risatine spunta il solito equivoco pesante come il piombo. L’Egitto reale è altrove e non ride di quelle visioni. Tanto che quei leak potrebbero essere una manovra deliberata per dare un senso profondo, profetico, alla figura del generale. “Sembra che chi ha provocato quelle fughe di notizie non abbia studiato a sufficienza la natura degli egiziani”, dice Negad Borai, un avvocato dei diritti umani, ad Associated Press. Avere sogni premonitori è una prerogativa dei grandi uomini e c’è tutta una tradizione mistica anche islamica che si occupa di interpretarli. Come spesso accade, le trovate elettorali vincenti sembrano impresentabili e poco sofisticate all’intellighenzia, ma finiscono per lasciare il segno dove conta: nelle teste della moltitudine. Il twittarolo cairota bilingue magari ghigna ma non conta nulla nelle urne, e intanto la base elettorale del paese che mastica lento e poco sta prendendo nota: il generale è un uomo pio che fa sogni molto personali, che sia un predestinato?
Tra i leak audio c’è anche una parte in cui Sisi raccomanda al direttore di fare campagna per l’immunità del ministro della Difesa – che è l’incarico da lui ricoperto – e che secondo una clausola poi inserita nella Costituzione non è più revocabile dal primo ministro. Di fatto, il ministro della Difesa in Egitto diventa un potere autonomo. Ma di questa parte si è parlato meno che del fatidico Omega.
“Se il popolo me lo chiede”
Dev’essere una segreta speranza che spinge il Pentagono a ospitare ufficiali stranieri sui banchi delle sue accademie militari e ai suoi corsi d’aggiornamento: che succeda come con Sisi, addestrato a Fort Benning nel 1981, poi tornato da generale per un intero anno accademico al War College di Carlisle, Pennsylvania nel 2006 (l’anno in cui ha smesso di parlare dei suoi sogni: sarà stato l’imbarazzo? Si può raccontare che una notte Sadat ti è apparso mentre sei da Starbucks?) e ora diventato reggente ad interim del potere in Egitto. L’investimento è niente male: ospiti un ufficiale e ti ritrovi con un rais che oggi non ha bisogno di interpreti quando prende le telefonate da Washington. A dire il vero la candidatura del generale Sisi a presidente dell’Egitto non è per nulla ufficiale, ma lui tre giorni fa ha usato la formula “se il popolo me lo chiede”, che ormai va considerata una specie di sigillo che precede e legittima le sue decisioni. Un mese prima di rovesciare il presidente Mohammed Morsi e di aprire la grande stagione di caccia ai Fratelli musulmani aveva garantito che il suo esercito sarebbe stato “il protettore dell’interesse del popolo” e poi è arrivato il 3 luglio, con l’arresto di Morsi e la grande restaurazione. Due settimane dopo, chiese al popolo un mandato per occuparsi del “terrorismo e della situazione di violenza potenziale”, e da lì in poi ha ordinato la repressione capillare e spietata della Fratellanza musulmana, che in questi mesi è stata cancellata dalla vita politica fino a essere dichiarata “organizzazione terrorista”. Sotto la responsabilità di Sisi è avvenuto il più grande massacro degli ultimi decenni, al sit-in di Rabia al Adawiya. “Se il popolo lo chiede”; la spada con la lama rossa. Nessuno ride.
“Siete la luce dei miei occhi”
Il popolo lo vuole, Sisi? Certamente sì. Un gruppo di suoi sostenitori è arrivato a intentare una causa legale per obbligare il generale a presentarsi alle elezioni. Un altro gruppo dice di avere raccolto dodici milioni di firme a suo favore e che di elezioni non c’è più bisogno, si possono pure saltare, si passi subito a Sisi presidente. La Sisi-mania è la reazione a tre anni di rovesciamenti e colpi di scena: via Mubarak, dentro il feldmaresciallo Tantawi, via lui dentro i Fratelli musulmani, via i Fratelli musulmani ed ecco Sisi. Ogni alleanza, ogni dichiarazione di fede politica o di voto negli ultimi trenta mesi è stata a turno umiliata e smentita. Ieri ai corrispondenti stranieri che facevano interviste davanti ai seggi – c’è il referendum di conferma sulla Costituzione – gli egiziani rispondevano che soprattutto votano per la stabilità. E il bello è che lo dicevano anche a tutte le elezioni precedenti negli ultimi due anni, figurarsi quanto sono esausti e quanto vale di più questa volta. E’ come se ci fosse bisogno, dopo la girandola da vertigine politica, di ancorare la situazione a un punto fisso: tocca a Sisi e in lui crediamo.
Il popolo lo vuole e non teme di cadere nel grottesco: è un amore kitsch, impresso nei cioccolatini a forma di Sisi e sui cartelloni a lui dedicati di colore rosa e con i cuori, nei cori devozionali dei bambini che vengono caricati su YouTube e nelle offerte delle conduttrici tv che si dichiarano pronte a diventare “sue schiave del sesso”. Ci sono anche i gioielli, due C intrecciate, a dire C e C, che si pronuncia: Sisi. Il referendum di ieri è visto come un voto sul generale e sembra che il sì, caldamente consigliato dai militari, vincerà a valanga. Lui ricambia colmo d’amore: “Non sapete che siete le luci dei nostri occhi?”, chiede ai comizi, parlando agli egiziani a nome dei soldati. “L’Egitto è la madre del mondo, grande come il mondo, e tornerà a essere grande”. Commenta il giornalista Naser al Masri sul quotidiano indipendente al Tahrir: “Divento sospettoso ogni volta che un politco parla d’amore, figuriamoci quando lo fa Sisi. Questo tipo d’amore prevale soprattutto nella Corea del nord”.
La realtà dura dell’economia egiziana
E quindi che fa? Si candida, non si candida? Lui si schermisce, “i miei soldati cominciano a lavorare alle cinque del mattino, a voi piacerebbe?”. Il primo ministro degli Emirati arabi uniti due giorni fa ha detto che non si dovrebbe candidare, che sarebbe meglio se restasse nell’esercito. Forse il generale capisce che l’azzardo è duro, non è un sogno, l’Egitto ha una realtà economica che ti sveglia come uno schiaffo in faccia: la stessa élite che ora lo celebra come il nuovo Nasser sarà la prima ad abbandonarlo schifata se le cose andranno male e l’idolatria del popolino svanirà presto, assieme ai sogni. Se non riesce a risollevare la situazione, c’è il rischio che provino a mangiarlo vivo. Nervana Mahmoud, egiziana che scrive sul Telegraph e il Daily Beast, dice che il generale esitante pare uscito da un romanzo di Naguib Mahfouz: vive sommerso dall’adulazione e tentato dall’avventura presidenziale, ma ne teme le conseguenze. L’Egitto non aveva democratici autentici o autocrati intelligenti, non è realistico aspettarsi che la rivoluzione del 2011 abbia portato cambiamenti. Ci vorrà ancora molto tempo, “potrebbe scoprire che il presidente Sisi non può essere sexy come il generale Sisi”.
L’operazione “Riaggancia Sisi”
Rais futuro o no, gli americani hanno già lanciato l’operazione “riaggancia Sisi”. Il capo del Pentagono Chuck Hagel, che con lui aveva scoperto un’intesa personale a un pranzo di due ore a metà aprile, gli ha già telefonato una trentina di volte, anche se soltanto la metà delle chiamate finisce riassunta nelle note per la stampa del segretario alla Difesa. Hagel sta tentando quello che l’ex capo di stato maggiore, Mike Mullen, faceva negli anni scorsi con l’imperturbabile generale Kayani, capo delle Forze armate del Pakistan. “Ormai siamo alla terza tazza di tè” – quindi uno di famiglia, secondo il detto pachistano – diceva Mullen del suo corrispettivo a Islamabad (l’amicizia finì però male per una storia di servizi segreti troppo collusi con gli uomini di al Qaida che facevano saltare in aria i soldati americani in Afghanistan).
Hagel ha dato a Sisi una biografia di 904 pagine su George Washington scritta da Ron Chernow: “C’è un tema specifico su cui mi soffermo con il generale, con cui ho molte conversazioni: sarai il George Washington d’Egitto o sarai un altro Mubarak?”. Però, come nota Shadi Hamid su Politico, tutte queste conversazioni e telefonate non sortiscono effetto. La repressione militare contro la Fratellanza musulmana, contro i liberali laici e in generale contro il dissenso è dura, i giornalisti finiscono in prigione e Bassem Youssef, lo Jon Stewart d’Egitto, ha dovuto chiudere la sua trasmissione dopo una sola puntata – non era successo nemmeno con i Fratelli al potere, che lo odiavano con ferocia.
A ottobre l’America ha deciso un taglio degli aiuti militari, ma parziale, un taglietto: “Un affare molto piccolo”, come ha detto il segretario di stato americano John Kerry al Cairo, dopo aver perdonato la campagna brutale dell’esercito con la definizione di “ripristino della democrazia”. Così, anche la modesta punizione di ottobre sta per essere annullata: il Congresso americano si prepara a rivelare il contenuto di una legge che sarà valida per un anno e permetterà all’Amministrazione Obama di mandare più di un miliardo di dollari al governo e all’esercito egiziani. E’ il frutto di un lungo lavoro di lobbying da parte dell’Amministrazione Obama e aggira tutta la questione dei diritti umani e della democrazia in caso di golpe, anche se alcuni senatori insistono perché l’aiuto sia condizionato dal rispetto da parte del Cairo di un minimo di presentabilità democratica.
Schiacciare la Fratellanza ovunque
E Israele? Che direbbe del nuovo vicino? Ieri Reuters aveva una notizia esclusiva che cita quattro fonti anonime della sicurezza e della diplomazia del Cairo e sembra scritta apposta per dare soddisfazione al governo di Gerusalemme: dopo aver schiacciato la Fratellanza musulmana in casa, la giunta militare vuole fare lo stesso con il gruppo palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza. “Lavoreremo con i rivali politici di Hamas, il gruppo Fatah, anche per anni se sarà necessario – dicono le fonti Reuters – per sradicare il gruppo islamista”, stretto parente della Fratellanza che minaccia la sicurezza nazionale appena al di là del confine. Dalla scorsa estate i militari hanno cominciato una campagna di forza senza precedenti contro Hamas, hanno allagato con acqua di fogna la maggioranza dei 1.200 tunnel che garantivano lo scambio tra il mondo esterno e la Striscia e compilano liste di possibili bersagli da bombardare grazie ai voli di droni. Ora però stanno per lanciare un’operazione più ambiziosa che è un misto di politica e sabotaggio via intelligence: screditare gli islamisti e aiutare un movimento interno di rivolta, sul modello dei Tamarod – i giovani che hanno lanciato le proteste di massa contro Morsi la scorsa estate. Tamarod edizione Gaza dovrebbe far leva sullo scontento palestinese. E’ un progetto che durerà anni, segno che i militari scommettono già che il loro mandato, sotto il nuovo rais garante della stabilità – Sisi il riluttante – è a lunghissimo termine.
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