La gran rottura della romanità

Stefano Di Michele

Mica è colpa di Roma, piuttosto di questa gran rottura della romanità. Imperiale e papale (e puttana) – così sempre sul filo di lama tra palcoscenico e bordello. E ancora rintronano le orecchie di mai smaltiti stornellatori di barcaroli tristi / Ninette alla finestra / casette di Trastevere (casa de mamma mia: si sa); e intanto rendono insonni le notti e pesanti i giorni il rotolare degli ultimi anni dentro il mito rivisto della dolce vita/vita de merda: tutta una ronda, una samba, un happy hour.

    Mica è colpa di Roma, piuttosto di questa gran rottura della romanità. Imperiale e papale (e puttana) – così sempre sul filo di lama tra palcoscenico e bordello. E ancora rintronano le orecchie di mai smaltiti stornellatori di barcaroli tristi / Ninette alla finestra / casette di Trastevere (casa de mamma mia: si sa); e intanto rendono insonni le notti e pesanti i giorni il rotolare degli ultimi anni dentro il mito rivisto della dolce vita/vita de merda: tutta una ronda, una samba, un happy hour. Rumor di bonghi, spianate di borse e cazzate false, rutti da post moijto e stronzetti sedicenni con le macchinine comprate da mammà che intasano, attufano, sfiatano. A parte auliche suonate su fontane e pini e tramonti, è la romanità a conferire alla città (eterna: a sapere la misura dell’eternità) la sua evocata e risaputa volgarità, assediata adesso dalle discariche che la sua monnezza più non possono contenere, da troppa affabilità tra il “Supremo” (che a Roma non è Lui, ma l’ottantasettenne avv. Cerroni) che sulle discariche vigilava e i politici che non l’hanno fatto – così i giornali: “Immondizia d’oro e regali ai partiti”.

    Volgarità che insopportabile la rende, e per certi aspetti indispensabile (attesa, almeno) pure: come il falso gladiatore che al Colosseo taglieggia il turista. La romanità è sempre stata mezza fesseria e mezzo inganno, colonne smozzicate nobilitate dai gatti e preti vaganti (a volte santi, a volte allupati), romanità che intruglia e satolla “in ne’ sughi della gloria” sua sta. Quando le texane dai larghi sederi allegre e danarose al Foro sbarcano, non meno degli smutandati cittadini che si mettono in fila in pieno inverno, culi al freddo, a mostrar le chiappe chiare!, su un marciapiede di via del Corso per ricevere gratis le mutande di cui abbisognano, quelle e questi il peplum invocano e col simil-peplum si giustificano, mentre lo sguardo vaga nel miraggio delle ormai introvabili tonache (a Roma i preti vanno vestiti sempre come psicanalisti statali).

    E si rimugina sul mito che da Lupa finì trans, coloro che adesso tutto il mercato delle strade statali occupano, dall’on. al rag. – e che ogni tassista loda: come ottimi clienti, lunghi percorsi ed esborsi che mai si discutono, “dotto’, avercene de quelli!”.

    Si capisce che il Santo Padre (dalla fine del mondo arrivato, in un posto che in certi giorni alla fine del mondo pare) ha ben ragione a parlare di “tratta delle novizie”, ché poi le vedi per Roma queste monache di recente importazione, statuarie e di robusta costituzione, che sugli autobus si aprono la via verso l’unico posto libero assestando colpi di marmoree cosce alla folla circostante. E a forza di alimentare una romanità sempre più simile alla parodia (mica per caso c’era chi, a pochi chilometri dalla città, voleva costruire una Disneyland della Roma stessa: come Topolinia per una colonia di sorci veri lì nei pressi), s’è fatto apposito calendario con un prete per mese – chiaramente fotomodello da prete vestito: miracolo di fede e di estetica – pettorali e sguardi assassini da calendario di giocatori di rugby, meglio vestiti di quelli nei risaputi film di Fellini.

    Il teatro della romanità da decenni tiene in ostaggio Roma, giustifica il suo rassegnato accasciarsi. Il lento precipitare che ha portato dal party dei politici vestiti da maiali ai maiali stessi sorpresi a ravanare nel bel quartiere borghese della città, manco fosse una puzzolenta cittadina della frontiera messicana, ne è sintesi e insieme tragico annuncio. Non c’è sindaco che appena arrivato in Campidoglio non dichiari tutto il suo amore, la sua emozione per tanta solennità, il suo impegno per simile gravità. Amore rutelliano/veltroniano/alemanniano/mariniano – sempre stentoreo amore. Anche no, si potrebbe dire, grazie così – ma se ti amano tanto, possibilità di sfuggire non c’è: una Nuvola infinita, un Meier, al peggio una corsa di bighe. Poi le buche là stanno, a sprofondamento e a groviera.

    Gli allagamenti a ogni acquazzone, manco fossero cicloni filippini. Trasporti come lente tradotte. Il Messaggero si è elaborato apposita mappa su dove, tra Fori e Colosseo, varie etnie vanno a cagare o a nascondere la mercanzia (a uno Traiano, a un altro Nerva) che pure i finanzieri sono stanchi di raccattare. Borseggiatori rapaci in festa fanno rubrica a sé nelle cronache. Il frugare disperato/sfacciato nei cassonetti, così che la monnezza che le discariche non contengono più già sui marciapiedi trabocca. E certi morti sparati, negli ultimi mesi, ormai anni, da far Chicago a Tor Marancio. Ma lo stesso, chiunque al Campidoglio sale, amor suo e amor di città, qualcosa pensa di aggiungere: un bagordo, un’estate romana, un’isola pedonale che si trasforma nel casino istituzionalizzato. Gli angoli di Roma sanno di piscio e vomito, che tutti a mangiare per strada, e per strada a bere, neanche fosse un set neorealista del Dopoguerra, un accampamento dei visigoti, un pollaio alla distribuzione del becchime.

    Hai voglia di cercare la grande bellezza di Roma, nella mesta bellezza della romanità spenta – una città da “tana libera tutti”, sfregiata dai writer, strangolata dal bancarellame dozzinale che assedia impunito Bernini, l’abusivo che ti blocca il portone di casa. Sì, la luce sotto i ponti all’alba, capirai: solo se fai il panettiere o se ti convoca il regista. Per il resto è il groviglio, l’ingorgo tra il semaforo e l’esistenziale, la fatica di una sorte di triste perenne carnevale. Forse Roma non poteva (può) avere altra sorte. Vittorio Gassman, che di teatro ne sapeva, dopo il whiskey serale la vedeva in preda alle tigri come la Buenos Aires di Borges, “nelle notti illune alle quali il barocco / circostante offre guizzi / di ignobile maestà. Una città / di colore pesante, / di suore, di mami, di misirizzi”. Pesante ha ora anche il respiro, affannoso e corto, accelerato il battito, la città che consacra oltreoceano la sua paradossale “grande bellezza”. Un principio di dissolvenza si avverte. Come quando il film sta per finire. Poi magari ti arriva l’Oscar.