Il caso Chiamparino e la versione dell'ex sindaco (che non regge)
Sergio Chiamparino non risponde di fatto alle contestazioni sollevate sul suo passaggio da sindaco di Torino a presidente di un’istituzione con rilevanti ruoli pubblici come la Compagnia San Paolo al cui controllo il Comune collabora e poi a candidato a presidente di una Regione che collabora al controllo della Compagnia di cui era presidente. Perché non tenta almeno uno di quegli scatti sostanzialistici – tipo “la situazione era drammatica e richiedeva forzature” – da politico di qualità?
Sergio Chiamparino non risponde di fatto alle contestazioni sollevate sul suo passaggio da sindaco di Torino a presidente di un’istituzione con rilevanti ruoli pubblici come la Compagnia San Paolo al cui controllo il Comune collabora e poi a candidato a presidente di una Regione che collabora al controllo della Compagnia di cui era presidente. Perché non tenta almeno uno di quegli scatti sostanzialistici – tipo “la situazione era drammatica e richiedeva forzature” – da politico di qualità?
La versione minimalistica non regge. Non è vero che il comune di Torino indichi solo 2 membri su 21, ne indica 2 su 17 che poi ne eleggeranno altri 4. Non è vero che i nominati “politicamente” sono un’esigua minoranza: 2 del comune, 1 della provincia, 1 dalla regione, 1 del comune di Genova, 1 dal ministero delle pari opportunità, 1 dal consiglio regionale del Volontariato nominato con legge regionale più 2 nominati a vario titolo dalla Comunità europea. Dunque dai 6 ai 9 di nomina politica (su 17). Basta poi una rapida verifica sul sito stesso dell’istituzione per ricordarsi come le attività della Compagnia siano essenzialmente orientate a sostenere sul territorio attività ora di assistenza ora culturali ora produttive. Il che in sé è positivo: forme miste pubblico-private di intervento sussidiario allo stato sono da benedire. Ma rende poco credibile, dal punto di vista della responsabilità etica, il passare da presidente della fondazione a presidente della regione: il giorno prima assistevi i cittadini (con soldi pubblici), il giorno dopo, a cadavere di Roberto Cota ancora semicaldo, ti candidi a ricevere i voti di quei cittadini che hai poco prima (con soldi pubblici) beneficato. La critica ai magistrati che non dovrebbero candidarsi in luoghi dove hanno svolto il loro ruolo, diventa quasi una bazzecola rispetto a un caso di ben più devastante incompatibilità morale. D’altra parte ciò era evidente a Chiamparino quando intermise un anno di tempo tra il suo incarico di sindaco e quello di presidente della Compagnia.
Resta comunque da capire perché tutto ciò avvenga così inelegantemente e frettolosamente con il rischio che il primo irriverente indichi la nudità del re.
Una prima spiegazione deriva dal notare come in tanti si siano affrettati e stiano affrettandosi, dal 2011 in poi, a lasciare in vari modi il mondo Intesa. Chi ama la propria patria, ha quasi un ritegno ad affrontare argomenti che forse se analizzati troppo a fondo e pubblicamente potrebbero provocare sconquassi. Sia detto però che non ci si deve costringere a provare nostalgia per Benito Mussolini che quando si trovò di fronte alla crisi del sistema bancario nazionale non esitò a chiamare personalità assolutamente indipendenti come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, e soprattutto a mettere da parte grandi banchieri come un Giuseppe Toeplitz che aveva “sbagliato” ma che pure tanto aveva dato (infinitamente di più rispetto a qualsiasi nostro protagonista della finanza post Cuccia) alle fortune dello sviluppo italiano.
La seconda spiegazione (non priva di intrecci con la prima) invece poggia sui frenetici assestamenti del potere italiano: in questi movimenti è centrale la decadenza dell’egemonia bazoliana su Intesa fiaccata innanzi tutto dal caso Zaleski. Ma i più avvertiti sanno che dare per spacciato l’avvocato bresciano è sempre un azzardo. E così osservano con particolare attenzione le divisioni tra l’ala ex Pci dei renziani torinesi (strettamente legata al mondo Fiat) e l’ala cattolica renziana che ha il suo cuore nella provincia e ha dato più di un dispiacere allo stesso attuale sindaco (renziano naturalmente) di Torino, cioè Piero Fassino. Che una qualche primaria potesse lanciare un candidato non controllabile potrebbe essere la causa della fretta di Chiamparino. In questo senso è pure opportuno riflettere sugli equilibri post Detroit della famiglia Agnelli, su come si potrà articolare un potere che derivava la sua egemonia da una preponderanza innanzi tutto industriale che non ci sarà più. Certe esigenze di semplificazione politica (come l’emarginazione di tutto il mondo laico non Fiat rappresentato da Enrico Salza o il togliere ai non torinesi la guida della Regione Piemonte) paiono simmetriche ai nuovi equilibri e processi post Detroit.
Sia ben chiaro che non m’interessa fare del moralismo un tanto al chilo: l’operazione di Sergio Marchionne – sperando che abbia successo – mi sembra provvidenziale, e se gli Agnelli aumenteranno la loro influenza sul sistema bancario sarà assai utile a una finanza che ha bisogno di protagonisti “privati”. Quello che mi sembra auspicabile è che questi processi avvengano in coerenza alle esigenze e regole minime di una liberaldemocrazia e con un’attenzione agli interessi nazionali non inferiore a quella – in questo campo perché in altri fece disastri – dimostrata da Mussolini.
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