Ecco perché è l'energia “sporca” a fare muovere il mondo

Alberto Brambilla

Per quanto gli euroburocrati si ostinino a imporre alle industrie dei paesi membri criteri sempre più rigidi sulle emissioni inquinanti e al contempo vogliano incrementare l’energia prodotta con le ipersussidiate rinnovabili, il mondo andrà avanti con l’energia “sporca” del carbone e delle fonti fossili (almeno) per i prossimi vent’anni.

    Per quanto gli euroburocrati si ostinino a imporre alle industrie dei paesi membri criteri sempre più rigidi sulle emissioni inquinanti e al contempo vogliano incrementare l’energia prodotta con le ipersussidiate rinnovabili, il mondo andrà avanti con l’energia “sporca” del carbone e delle fonti fossili (almeno) per i prossimi vent’anni.

    Col nuovo pacchetto energetico che verrà presentato mercoledì a Bruxelles i leader dell’Unione europea, sebbene divisi dalla difesa degli interessi nazionali come da prassi consolidata, intendono ridurre le emissioni di anidride carbonica del 40 per cento entro il 2030 per arrivare all’80 per cento entro il 2050 e insieme incrementare del 7 per cento l’uso delle energie rinnovabili entro i prossimi vent’anni. E’ una scelta che scontenta tutte le parti coinvolte. Da un lato ci sono gli industriali che paventano il rischio di un’ulteriore perdita di competitività delle aziende europee nel tentativo di incontrare i nuovi target, ambiziosi secondo molti osservatori. Per manifestare il proprio dissenso, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, mercoledì ha inviato una lettera al presidente della Commissione, José Manuel Barroso, e al presidente del Consiglio, Enrico Letta, dicendosi “preoccupato” dalla nuova politica comunitaria che “penalizza” le imprese italiane.

    Anche i lobbisti delle aziende rinnovabili scalpitano. Ritengono che i criteri brussellesi siano troppo laschi in quanto non costringono i singoli stati a fissare degli obiettivi vincolanti. Fatto sta che la politica energetica europea ha già fatto abbastanza danni economici, secondo i capi azienda delle principali utilities, scriveva ieri il Wall Street Journal. La competitività delle aziende si è ridotta a causa del rincaro generalizzato della bolletta energetica servito in buona parte a sussidiare le fonti rinnovabili come eolico e solare. L’esempio italiano è emblematico: nel 2011 l’Italia ha installato il 33 per cento della quota mondiale di pannelli fotovoltaici e gli investitori hanno registrato utili ante imposte stellari, superiori all’86 per cento, mentre per i cittadini i costi dell’energia sono aumentati.

    In attesa di prove scientifiche schiaccianti a supporto della tesi ambientalista, la corsa per combattere il cambiamento climatico rischia di gravare sulla già stentata ripresa economica un po’ ovunque, non solo nella malandata Eurozona. Per farsi un’idea corre in aiuto un rapporto riservato delle Nazioni Unite, rivelato ieri da Bloomberg, secondo il quale l’obiettivo (condiviso dai leader mondiali) di abbassare la temperatura del pianeta di due gradi Celsius entro il 2050 costerà 4 punti di pil a livello globale visto che le emissioni di gas serra dovrebbero calare del 40-70 per cento circa rispetto ai livelli del 2010.

    Tutto ciò non significa che l’Europa sia diventata più “green”. Semmai ha sprecato tempo e risorse economiche nel tentativo (velleitario) di farlo. Il mix energetico europeo infatti si è deteriorato e si è anche “sporcato” negli ultimi anni. La generazione elettrica da gas è diminuita del 25 per cento e la produzione di energia da carbone è aumentata del 10 per cento tra il 2010 e il 2012. “Il paradosso – come l’ha definito l’ad dell’Eni, Paolo Scaroni in un articolo sul Financial Times del 31 ottobre scorso – è che l’aumento delle emissioni di anidride carbonica causate dal carbone addizionale ha quasi spazzato via i benefici degli investimenti in energie rinnovabili e la riduzione dell’attività economica degli ultimi cinque anni”. Non solo. Il carbone fossile resterà la principale fonte di generazione elettrica mondiale fino al 2035, cioè fino a  quando arrivano le previsioni del World Energy Outlook 2013 della International Energy Agency. Coprirà il 39 per cento della produzione mondiale, mentre alle rinnovabili resterà solo un 8 per cento, al nucleare il 15 e al gas il 22. Ed entro la fine di questo decennio il carbone sorpasserà il petrolio come risorsa energetica dominante a livello globale, almeno così dice uno studio della Wood Mackenzie, una società di consulenza specializzata in energia. Anche negli Stati Uniti, che puntano a emanciparsi dalla dipendenza energetica dall’estero grazie al boom dello shale gas, il carbone resta la principale fonte di energia elettrica e la sua produzione, pur con gli alti e bassi della crisi che non ha risparmiato il settore minerario, rimmarrà sostanzialmente costante nei prossimi trent’anni, stando alle statistiche della Us Energy Information Administration. E’ anche il “nuovo oro nero” per l’export. Nel 2012 le vendite all’estero sono più che triplicate rispetto a trent’anni prima generando un boom di profitti – da 15 miliardi di dollari – per le quattro principali compagnie statunitensi. La destinazione principale non è più il vicino Canada, come all’inizio degli anni Duemila, ma i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e l’energivora Cina, la quale da sola assorbe almeno due terzi del carbone estratto in America.

    Questi dati ridimensionano quantitativamente la “rivoluzione” americana dello shale gas, il gas estratto dalle rocce profonde con getti d’agenti chimici, ma non certo i suoi benefici economici: la riduzione della bolletta elettrica per gli americani (pari a un terzo rispetto a quella degli europei), la ripresa di settori industriali considerati dormienti, come la siderurgia che fornisce gli strumenti estrattivi, e la creazione di migliaia di posti di lavoro. Molti osservatori si chiedono se sia possibile “esportare” questa “conversione energetica” anche in Europa con gli stessi effetti positivi.

    L’Europa è un buon posto per lo shale gas?
    La Gran Bretagna, che si sta tenendo alla larga dalle dispute brussellesi, è stata “pionieristica”. Il premier David Cameron a dicembre ha annunciato la decisione di cominciare a vendere le licenze con un enfatico sostegno per il gas di scisto. La convinzione degli analisti, come Paul Stevens del think tank inglese Chatham House, è che Cameron non avrà lo stesso successo di Barack Obama. Anzi. Per Stevens, intervenuto sull’edizione globale del New York Times del 15 gennaio, gli Stati Uniti hanno creato le migliori condizioni attraverso incentivi fiscali consistenti per gli operatori, l’allentamento dei vincoli ambientali e 25 anni di ricerche scientifiche sul tema. In Gran Bretagna, avverte Stevens, le condizioni ci sarebbero. Solo che il governo appare riluttante a trovare solide basi teorico-scientifiche per giustificare le attività esplorative, la regolamentazione è ancora troppo rigida e l’opposizione dell’opinione pubblica rimane un rischio. Per non parlare della necessità di investire in gasdotti per portare il gas in Belgio e così rifornire l’Europa. Su Cameron come apripista europeo ripone le proprie speranze anche un entusiasta dello shale gas come l’ad di Eni, Paolo Scaroni. Al momento, però, anche Eni sembra aver avuto poca fortuna. La settimana scorsa ha lasciato scadere due licenze esplorative su tre in Polonia – un paese che va a carbone – perché la quantità di gas trovato sarebbe inferiore alle aspettative della compagnia.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.