Dov'era finito Gianni Letta

Stefano Di Michele

Forse Letta (Gianni) non è proprio una leva capace il mondo di sollevare (né, del resto, quelli intorno sono degli Archimede), ma di sicuro è uno che una leva, quando serve, può aiutare a trovare. Rispetto al baule disordinato del succedersi delle nostre Repubbliche (la Prima, la Seconda, verso la Terza, ecc. ecc.) dove si ammassano insieme alla rinfusa stracci e sfarzosi costumi, pezze lerce e alta sartoria, piume leggere e fibbie di metallo, lui è l’ordinata cabina armadio: scarpe sempre lucide e appaiate, vestiti stirati e appesi, camicie tono su tono (tono azzurro, comunque), cravatte affilate, fazzoletti ben piegati.

    “Tutto si impara, anche la virtù” (Gianni Letta)

    Forse Letta (Gianni) non è proprio una leva capace il mondo di sollevare (né, del resto, quelli intorno sono degli Archimede), ma di sicuro è uno che una leva, quando serve, può aiutare a trovare. Rispetto al baule disordinato del succedersi delle nostre Repubbliche (la Prima, la Seconda, verso la Terza, ecc. ecc.) dove si ammassano insieme alla rinfusa stracci e sfarzosi costumi, pezze lerce e alta sartoria, piume leggere e fibbie di metallo, lui è l’ordinata cabina armadio: scarpe sempre lucide e appaiate, vestiti stirati e appesi, camicie tono su tono (tono azzurro, comunque), cravatte affilate, fazzoletti ben piegati. Sarà per questo che, come in quell’incantevole piccolo film francese di una ventina di anni fa – “Ognuno cerca il suo gatto” – ognuno cerca il suo Letta (Gianni).

    A soccorso, a invocazione, a instradamento: il Maloox che il bruciore calma, la melatonina che il sonno accelera, la pietra focaia per naufraghi disperati. E perciò al sorgere di una pletora di Gianniletta a uso personale si assiste, al fiorire dei replicanti, al gioco di specchi che sempre ne rimanda un altro. Uno, e pure più di uno a testa. Qualsiasi leader (pure solo quartino di leader: come il vino nelle osterie) neanche tira fuori la capoccia sopra la media che scatta la gara a individuare la vera certificazione della nascente leadership: il suo Gianniletta chi è? E’ questo, no è quello, è quell’altro ancora… Così a Matteo Renzi, in rapida e sovrapponibile successione, le cronache già ne garantiscono almeno due, i suoi Castore e Polluce del buon senso e del buon disbrigo, e perciò c’è chi titola e assicura: “Ecco chi è Marco Carrai, il Gianni Letta di Matteo Renzi”, e chi assicura e dunque titola: “Luca Lotti, chi è il Gianni Letta di Renzi”. Ad abundantiam. E chi non ne ha, a sua volta Gianni Letta si fa. “Se mi presenta come il Gianni Letta del Pd per me è un onore”, assicurò Goffredo Bettini. Più che la perfetta pettinatura, più che l’immacolato polsino, più che l’impeccabile baciamano (alla dama che si avanza, al prelato che si approssima), è un metodo, un’idea, una percezione. Le dita che sfiorano l’acquasantiera come il dossier riservato, come il numero confidenziale sulla tastiera del cellulare. Fare come, allora. Mica facile, però.

    Gianni Letta è il persistere e il desistere, l’apparire e lo svanire, l’esserci sempre ma sempre senza essere mai troppo sotto i riflettori. E’ la discrezione della porta laterale, il banchetto mai a capotavola, la riposante penombra. Ma è pure la certezza del confessionale: ciò che lì viene detto, lì resta. Sacro Sigillo. Mai si segnala, Gianni Letta, ma nel gruppo centrale che sfrontatamente avanza – in bocca al fotografo, in bocca alle telecamere: a farsi ingenuamente pasto, a farsi quasi sempre rutto finale. Partono come pietanze prelibate, finiscono tramezzini. Fosse mai stato per quella primigenia foto di gruppo alle Bermuda, a smutandato trottare in massa dietro all’allora scalpitante Cavaliere, ove persino la chioma pareva dalla situazione scomposta, sempre e soltanto  avremmo di lui memoria dietro una cravatta di Battistoni, come il signor Bonaventura sotto il suo cappelluccio rosso. Appare e si inabissa, con l’eleganza (e dunque la vera potenza) delle cose laterali, quelle che infine contano – come pure poeticamente celebrato, “assenza, più acuta presenza”. C’è da celebrare e arriva, c’è da premiare e si presenta, c’è da consigliare e giunge. E’ al centro, ed è pure in chiaroscuro, persino quando la scena è tutta illuminata; è certo presente, ma quasi sempre da spettatore si traveste. E’ come il vascello dell’Olandese Volante, certo pur meno spettrale. E’ come l’Isola Ferdinandea, che dal mare sorge e la mattina dopo dentro il mare si è già rintanata. E’ come il fantasma malatestiano di Azzurrina, che però non singhiozza e piuttosto sussurra. Il lato delle cose che non solo permette migliore visibilità, ma pure meglio preserva. Quello che alla lunga consegna alla (reale) centralità delle cose stesse. Ecco: Gianni Letta, il Preservatore. A parte il Cavaliere, nessun altro come lui è stato Forza Italia che fu – pur di Forza Italia senza avere mai la tessera, pur di Forza Italia avendo sempre scansato adunate, assembramenti, riunioni: fossero faraonici decennali, fossero carbonare contingenze. C’è. Non c’è. Però c’è. Il pidielle, poi: più e ancora e ancora peggio, che c’è maggior rischio di scompigliamento nella maggior ressa, del parapiglia che manco la meglio cotonatura regge.

    E forse nessuno come lui, sempre a Cavaliere intronizzato e lodato, sa della Forza Italia che verrà, lazzariana e risorgente creatura: il volare alto dei falchi li ha sfiancati, mentre le ali della colomba riposavano nel silenzio della colombaia della Camilluccia – “rifugio da ogni paura, dubbio o discordia”, ebbe a narrarla quella sua abitazione: di crostate sfornate nella gloria, di provviste di sementi nell’apparente dimenticanza. Vox clamans in deserto, pareva – le voci stridule, infine, che il suo pigolio sovrastavano, tra le dune si sono perse. Chissà se  gli sarà venuto in mente quel felice, nel caso appropriato, aforisma di Stalislaw J. Lec: “Ho visto gabbie che volavano, c’erano dentro aquile”.
    Una vita a far politica, e senza mai una tessera politica  – magari a sua vanità, certo a rilevanza dell’inessenzialità dell’esserci con la banale modulistica. Tanti anni al governo, e senza mai la tentazione di un seggio in Parlamento – e pure qua, il discutere  di vanità e di inessenzialità sarebbe non poco opportuno. Ha una borgesiana “mente ospitale”, Gianni Letta – ospite di rango e ospitato di pregio. Conosce le trincee – quelle sue, quelle altrui. E le varca spesso – non in un assalto guerresco, piuttosto in un tintinnare di porcellane e cristalli: un tè? un caffè? un bicchiere di rosolio? Appretto e buone maniere.

    Non recita pirandellianamente molte parti in commedia, l’uomo che sempre e comunque il Cavaliere chiama “dott. Letta”: è le molte parti della commedia, e tutte le contiene e tutte le pratica. E’ nella scomposizione, la sua imperturbabile unità. Vede, parla, scivola lento sul bordo. Con una sostanziale fedeltà a tutte le sue amicizie – sostanziale fedeltà così a se stesso. Gianni Letta è Gianni Letta. Nei giorni buoni di Berlusconi e in quelli cattivi. Quando è a Palazzo Chigi e quando a Palazzo Chigi c’è il Nipote per il fronte opposto. Come una suprema deità politica, nessun nome dalla sua agenda fa cadere. E’ ancora il più assennato controsenso che abbia a disposizione l’Italia.  L’altro giorno è andato a dare l’estremo saluto al suo amico Arnoldo Foà, qualche ora prima era a ricordare il suo amico Giulio Andreotti – un anno dopo. E l’ultima uscita pubblica di Andreotti prima della fine fu proprio con Gianni Letta al fianco: il vecchio Divo senza cravatta, già quasi fisicamente in disfacimento come un cardinale di un quadro di Bacon, lui impeccabile e immutabile, identico ancora a come quarant’anni fa lo sfotteva sull’Unità il corsivista Fortebraccio, “non dimostra, beato lui, più di quindici anni: un paggio Fernando, pettinatino, leggiadrino, civettuolo e aggraziatamente bleso”. Proprio l’Unità, ed è da immaginarsi la soddisfazione del diretto interessato, una volta per definirlo tirò fuori Kant, mica la democristianeria solita e tarlata – è, fu scritto, Gianni Letta “la cosa in sé”.

    A ogni èra politica, psicologicamente e fisicamente simile attracca, e psicologicamente e fisicamente simile si consegna: come certe statue di santi che da secoli vanno in processione identiche e immutabili, come la Sfinge che là stava e sta, pure quando sotto la sabbia pare sepolta. Torna sempre, Gianni Letta. Sempre. Che poi non torna, perché sempre c’è – “anche tu così presente – sempre”, mai andato via. Solo che invisibile sta – pur sorprendentemente mai mancando: fosse una stagione governativa, fosse una stagione d’opposizione, fosse un (garbato) ricevimento – né plebe politica, né mignottume deambulante, né assalitori di buffet – fosse la cittadinanza onoraria a Pescasseroli “al dott. Giovanni Letta”, fosse convegno su “Sartoria italiana su misura: realtà e prospettive” e per rievocare il sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi. O un mesto addio: uomo di infinite relazioni, è anche uomo largamente condolente. Diceva Andreotti: “Per capire le sue frequentazioni basta leggere i necrologi sui giornali: lui c’è sempre”. Ecco, allora pure il necrologio lettiano si fa esatta misura delle cose, il sentimento delle cose come in un haiku giapponese, senza titolo e senza fronzoli  – partecipato addio e insieme perimetro entro cui deve regolarsi chi resta. Famosissimo, dunque, così da trovare ripetuta citazione, fu il necrologio che Letta e i suoi fratelli dettarono anni fa in occasione della scomparsa della loro mamma: “Gli otto figli la ricordano con amore e profonda gratitudine, ma anche con quella discrezione che lei ha sempre praticato e insegnato. Avrebbe preferito il silenzio, con l’annuncio dopo l’ultimo commiato”. Sfiorando perennemente i lati, Gianni Letta è uomo che perennemente i confini varca. E non solo nell’ovvio andare e tornare tra amici/nemici, alleati/avversari, – “è arrivato l’ambasciatore / con la piuma sul cappello / è arrivato l’ambasciatore / a cavallo di un cammello” – ma persino nei rapporti che sembrano i più ovvi nella sua vita. Lunga ormai, stropicciata affatto: con Andreotti e Berlusconi.

    Belzebù, il primo. Che certo, da papalino romano e potente democristiano, di quella scontata diabolica identificazione mediatica rideva e godeva. Qualche anno fa, nel suo perenne deambulare sui bordi delle frontiere, Gianni Letta arrivò a est: a Illegio, in Friuli, trecento anime appena. A far cosa? A inaugurare, nientemeno, una mostra sulle creature celesti: “Angeli. Volti dell’invisibile”. Ne ricavò, disse, mistica esperienza. “Questi angeli sono un invito alla serenità, un richiamo alla responsabilità, un’esortazione all’armonia, quindi torno a Roma confortato con le visioni evangeliche che spero ispirino anche i luoghi romani”. E ne trasse radicata certezza: “Gli angeli sono dappertutto, anche nei palazzi della politica. Oguno di noi ha un angelo. E’ vero, ci sono anche i demoni tentatori. Ma poi gli angeli vincono” – e mirabilmente potevano, le candide ali e l’arroventato forcone, una volta tornato nei palazzi della politica, convivere. Non meno paradossale, dietro l’ovvio di una storia che dura da più di vent’anni, è la sua intesa col Cavaliere – che si sa, i capelli ha non meno composti, praticamente atterrati, pur se certo più d’importazione. “E’ come parlare con me stesso” – dice Berlusconi di Letta, quando di Letta parla. Il suo specchio, il suo doppio – e dunque, e per forza, l’Altro, il Rovescio, il Secondo Nome proprio che ognuno tiene segreto, come i gatti di Eliot. Nella sua rutilante generosità, Berlusconi arrivò un dì a definirlo “vero dono di Dio all’Italia” – poi quando dalla chiacchiera la generosità arrivò a farsi quasi frastuono e caos, alla celestiale regalìa dal Cavaliere fu associato pure Putin. Pazienza. Però resta indubbio che se per Berlusconi il libro da elevare a modello, senza voler mettere di mezzo azzardate ipotesi di processi di meditazione, è “L’elogio della follia” di Erasmo (ne ha persino scritto apposita prefazione, rapito dalla “tesi centrale delle pazzia come forza vitale creatrice”), a Letta, capace di cavare “vitale forza creatrice” piuttosto dal perfetto annodamento della cravatta, lo scapocciamento, sia pur d’eccelsa dottrina, deve sembrare sconveniente quasi come un paio di scarpe marroni. Fino magari a cercar riparo e conforto nel più calzante e adeguato “Galateo overo de’ costumi” di monsignor Della Casa, ché “la piacevolezza non consiste in motti, che per lo più sono brievi, ma nel favellar disteso e continuato”.

    Non manca un appuntamento che sia uno, Gianni Letta. Con rinnovata, e pur sempre discreta, frenesia – non fosse, la parola frenesia a lui avvicinata, subito in odore di ossimoro. Perché mai fermo sta, tutto sa, ovunque (beh, proprio ovunque no) va. Sempre sembrando che immobile stia, sempre apparendo che ovunque non vada. Ma dalla Goldman Sachs al premio Campiello alla rievocazione del terremoto del 1915, tramite i racconti di nonna Margherita, niente manca. Come il governo che muore, quello che nasce, quello che rimuore, quello che rinasce, quello che si procrea. Renzi e quel tal Toti e il tal Nipote. E il presidente che dal Quirinale ebbe modo di lodarlo, “per la continua e sempre scrupolosa collaborazione istituzionale, per la sensibilità, la competenza e lo spirito di servizio con cui ha contribuito a tenere vivo e limpido”, ecc. ecc. – quasi una stella al merito, così che si parlò di lui come senatore a vita, e molto se ne ebbe a male Gad Lerner, “Gianni Letta è il principale esponente nonché simbolo di un sottobosco del potere romano che non è davvero il caso di elevare a modello istituzionale”, si udì ruggire dalla selva del Monferrato, e figurarsi il Fatto, pur se c’era chi non voleva per non dare un indiretto riconoscimento a Berlusconi, pur se all’opposto c’era chi argomentava che proprio di un colpo malizioso a Berlusconi si trattava. E persiste ancora a sinistra chi non si dà pace, ripensando a quella volta che Romano Prodi – ecco ancora Letta che tutto contiene: persino il Cavaliere e il suo arcinemico – lo definì “geniale”. 

    Come se una scia di prefetti, di antico mondo, di cavalierato del lavoro, di gentiluomini di Sua Santità, borotalco e buona barberia, gente da palcoscenico per antica passione teatrale, seguisse – appunto a ombra e a scia – l’ombra e la scia di Gianni Letta. E’ un giornalista, ma pure come giornalista il meno giornalista che ci sia – peraltro omaggiato una volta da un premio “per la sua opera complessiva”, del resto rara e rarefatta e introvabile, in termini di scrittura, quanto e più di un Rotolo di Qumran. Ecco, e ricapitolando: è Forza Italia e non ne ha tessera (deve aver fatta sua la convinzione di Oscar Wilde: “Adoro i partiti politici: sono gli unici luoghi rimasti dove la gente non parla di politica”), di governo e non in Parlamento, col Cavaliere e (pure) amico dei suoi nemici, giornalista ma giornalista non appare: non parla, non scrive, mostra persino poca (scaltra, si capisce) vanità. “Il dottor Letta non parla con i giornalisti”, come da sempre fa dire a chi sempre inutilmente lo cerca per una conversazione. Una buona parola certo, un’esasperante cortesia figurarsi, un sorriso gentile ci mancherebbe – mai niente di meno, se per caso lo incrociate per strada; mai niente di più, però. E’ l’ultimo uomo al mondo che qualcuno potrebbe immaginare twittare. L’ultimo al mondo capace di stare in centoquaranta battute, e il primo al mondo a sapere che centoquaranta battute sono più che sufficienti per rimediare una brutta figura (una bella quasi mai). “Il Mister Wolf del Pdl-Forza Italia”, scrivono i cronisti dell’Unità – ché lì, nella (fu) gramsciana enclave, tuttora suscita ammirati sospiri: “E oggi Letta Senior è ricomparso alla grande. Sia pure discreto e understated come sa fare lui”. 

    E il faticoso, perenne suo lavoro continua. Se davvero “gli uomini dovrebbero ignorare come vengono fatte le loro leggi e le loro salsicce” (Bismarck), ecco, non resta altro da vedere, come ultima zona di confine dove Gianni Letta deve scivolare/vigilare/rassicurare/esercitare, l’ultimo suo paradosso: aver lui in custodia i candidi angeli custodi che un dì temerariamente si tirò dietro dai patrii confini nazionali. Che nei palazzi romani dovrebbero proteggere – e che adesso lì dentro, forse, timorosi e puri (meno, però, di una qualiasi colomba), hanno loro bisogno di protezione. Come angelo custode Letta non è forse il massimo e pochissimo spendibile – ma certo sa almeno riconoscere il diavolo quando si avvicina. Senza nemmeno la necessità dell’esorcista. A naso. A sfioramento di dita. A occhiata rapida. Ché una crostata si fa presto a infornarla. E non avendo mai neanche per sbaglio canticchiato “e-forzaitaliaaaaa-che-siamo-tantissimiiiiiiii”, sa benissimo che è molto più suggestivo intonare al luciferino tentatore  “aggiungi-un-posto-a-tavola-che-c’è-un-amico-in-più…”. Sottovoce però. Che mica stiamo andando all’osteria.