Natale a casa Sisi
"Il Cairo in fiamme!”: non sai se ridere o piangere sulla soglia della moschea di al Azhar, quando leggi sull’iPhone che stai andando a fuoco con tutta la città. Ieri si è votata la nuova Costituzione voluta dai generali (è stata approvata a larga maggioranza), e se la città già inizia a bruciare, sarà un macello. Ma non è così. Non sarà così. Il Cairo non è affatto in fiamme. Tutto ha l’apparenza – e la sostanza – della più abitudinaria quotidianità. Alle spalle il piazzale della moschea è semideserto, accovacciati nel porticato studenti leggono testi coranici.
"Il Cairo in fiamme!”: non sai se ridere o piangere sulla soglia della moschea di al Azhar, quando leggi sull’iPhone che stai andando a fuoco con tutta la città. Ieri si è votata la nuova Costituzione voluta dai generali (è stata approvata a larga maggioranza), e se la città già inizia a bruciare, sarà un macello. Ma non è così. Non sarà così. Il Cairo non è affatto in fiamme. Tutto ha l’apparenza – e la sostanza – della più abitudinaria quotidianità. Alle spalle il piazzale della moschea è semideserto, accovacciati nel porticato studenti leggono testi coranici; in un angolo, un barbuto dall’aria saputa, il dito medio alzato e ritmante versetti coranici, indottrina ragazze attentissime fasciate in hijab di prammatica. Unica nota dissonante: hai accettato di malavoglia una guida pur di poter accedere alla biblioteca della più antica università coranica del mondo. Ma il turbantato ceffo, aperta con solennità la serratura, celebra con enfasi la magnificenza dell’augusta biblioteca davanti a una sala desolatamente vuota e impolverata. Non uno studente chino sugli scalcinati scrittoi in formica e tubi d’acciaio anni 50. Le sedie in similpelle screpolata sono coperte da due dita di polvere. Ai lati, dentro gli armadi a vetri, riposano testi per nulla antichi – il primo Corano stampato in terra araba fu “regalato dagli inglesi”, proprio qui ad al Azhar, solo nel 1920 – ma molto, molto impolverati, segno di una consultazione non frequente.
Fuori dalla moschea, cerchi in cielo tracce di fumo: nulla. Il solito color smog soffuso di luce pallida, non fiamme e men che meno odore di bruciato. Pure, tutte le homepage di tutti i media italiani (e francesi e inglesi), sostengono che sei circondato dalle fiamme dell’incendio eversivo cairota. L’epicentro sarebbe proprio quell’al Azhar da cui sei appena uscito. E’ tutto falso, frutto della fantasia compulsiva di media intossicati dalla necessità di urlare su internet.
Davanti a te, sulla sharia al Azhar, il traffico inutilmente strombazzante è imbottigliato. Come sempre. Sulla destra Maidan Hussein, la piazza, è presidiata da una cinquantina di poliziotti e soldati impacciati nelle divise stropicciate e lise, che bighellonano qua e là. Vai verso il lato est della moschea, verso il moderno porticato d’ingresso dell’università coranica: qui trovi soldati in improbabile tuta mimetica da deserto col mitra imbracciato, una mezza dozzina di veicoli antisommossa bianchi con truppe speciali dal passamontagna nero calato alla Fantômas. Un esile filo di fumo esce dal finestrone sopra il moderno ingresso nel brutto edificio. L’incendio è questo. Misero e tragico. Non ci vuole molto a farsi dire quel che è successo dai pochi che ti rispondono in un improbabile globish: disperati, furiosi, avventuristi bramosi di inutile martirio, gli studenti affiliati dai Fratelli musulmani hanno inscenato cortei tra i corridoi dell’Università di al Azhar, imponendo il blocco degli esami di mid-term e inneggiando alla liberazione di Mohammed Morsi. Secca la risposta: le truppe speciali incappucciate hanno sparato nei corridoi. Bilancio: un morto e una ventina di feriti, 60 arresti. Passa mezz’ora e la ferita nell’ordine pubblico della capitale viene rimarginata con confusa fretta burocratica. L’incendio, tutt’altro che impetuoso e subito soffocato, appiccato dai giovani e disperati Fratelli musulmani ad al Azhar, è perfetto simbolo della scena politica egiziana, così delineata dai titoli d’apertura, in strambi caratteri gotici, dell’Egyptian Gazette. 27 dicembre: “Cairo bomb blast wounds 5”; l’esplosivo è stato piazzato su un bus ed è esploso in Maidan Hussein, di fronte ad al Azhar, di primo mattino. 28 dicembre: “Morsi supporters clash in Cairo, Giza”. 29 dicembre, a pagina 3: “Never too late to decide”, il corsivo di Khaled Emam che incita a stroncare la Fratellanza è accompagnato da una vignetta ripresa da al Ahram che mostra un martello che sradica dal terreno un verme che ha il volto umano barbuto di un Morsi o di un Badie, segnato sulla fronte dalla Zebiba, la cicatrice perenne provocata dalla prosternazione sul tappeto della preghiera. 30 dicembre “Blast hits building in Sharqiya, four injured”: la bomba è esplosa a fianco della sede dell’Intelligence militare (il cui comandante era il generale Abdel Fattah al Sisi), a nord della capitale. A fianco: “Clashes renew at Azhar University”. A ogni “venerdì della rabbia”, proclamato con insistenza suicida dai Fratelli musulmani cadono sul selciato cinque, dieci, quindici militanti a Nasr city, il quartiere del Cairo caposaldo degli islamisti, Alessandria, Ismailia e Port Said sul Canale di Suez, Fayoum e altrove. Rito disperato di un movimento sconfitto ed emarginato. Simbolo sanguinante della chiusura feroce di ogni spazio di agibilità politica a cui la dirigenza superstite del movimento risponde solo offrendo il sangue dei propri adepti in un sacrificio inutile e rituale sul selciato. Incubando terrore e terrorismo.
Questo teatro di sangue sfianca il paese: dieci milioni sono gli egiziani che vivono – vivevano – del turismo e oggi sono, letteralmente, alla fame. Altro che “Natale sul Nilo” e cinepanettoni vari! A Giza, un venerdì di fine dicembre, conti dodici-turisti-dodici che girano tra le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino. Deserto il Mena hotel che sa ancora di Agatha Christie. Nella notte del Cairo pochissime luci illuminano le stanze occupate da turisti nelle alte torri dei mega hotel a cinque stelle sulle rive del Nilo. “Non ci sono prospettive, ci vogliono anni per rassicurare i turisti a tornare da noi. Non ci credo più, mi cerco un altro lavoro”, in perfetto italiano – ha studiato dai salesiani del Cairo, è copto – davanti a una caraffa di vino egiziano, Amba, mega manager d’albergo spiega che tutto va a rotoli e non si vede uno spiraglio. “Le cifre ufficiali parlano di un calo di presenze del 30 per cento. Sono false, qui su 980 camere abbiamo prenotazioni per le vacanze di Natale per il 20 per cento. Anche a Sharm, il calo reale è del 60-80 per cento. Un disastro”. Amba, non scende sul terreno scivoloso della politica – il suo lavoro con i vip lo porta a stretto contatto col Mukhabarat, i Servizi – preferisce parlare di vino con nostalgia per il Pinot nero e disistima sostanziale per i vini egiziani dai nomi altisonanti – Cru des Ptolemees, Omar el Khayam Rubis d'Egypte – ma dal vago retrogusto di Tavernello. “In realtà, poter liberamente bere vino in pubblico è l’unica cosa che distingue i paesi arabi ‘laici’ dagli altri. Per il resto di laico in Egitto, Siria, Tunisia e Libano c’è sempre stato ben poco. Prima e dopo le ‘primavere’. Ma si beve vino solo perché noi cristiani coltiviamo viti e vinifichiamo. E anche in questo l’Egitto è indietro: non c’è paragone tra i nostri bianchi e i Sauvignon siriani delle alture del Golan”. Amba chiude sconsolato: “Sino al 3 luglio – giorno della deposizione di Morsi – abbiamo rischiato di perdere anche questo piacere. Almeno ora, questo pericolo è scongiurato. Per il resto…”.
Impelagati nel caos, tanti egiziani come Amba si scoprono oggi soli, isolati, orbati di quella massiccia, chiassosa, danarosa presenza di occidentali e di profumo di occidente portata da milioni di turisti. Non stupisce che il sostegno ad al Sisi, alla deposizione di Morsi e alla dura repressione dei Fratelli musulmani sia approvato vuoi dall’80 per cento della popolazione (sondaggio Gallup), vuoi dal 70 (stima dell’Arab American Foundation).
Allievo di Mohammed Arkoun alla Sorbonne, Ibrahim, anziano giornalista cinico quanto serve, “riceve”, come sempre, sulle poltrone rosse – in stato pietoso – al primo piano del Café Groppi, un tempo ritrovo dell’intellighenzia cairota, ora locale scialbo e polveroso come una stazione di provincia del Montenegro titoista degli anni 70, nonostante il décor Art Nouveau. “Noi egiziani abbiamo sbriciolato ogni teoria e prassi dei sommovimenti sociali – esordisce con un sorriso amaro – piazza Tahrir ha un enorme, robusto corpo, ma è senza testa: prima ha servito i più fedeli gerarchi di Mubarak che l’hanno usata per deporre il loro ingombrante rais, a cui dovevano tutto; poi ha servito – senza saperlo – gli islamisti, compulsivi feticisti con manie suicidali; poi ha deposto Morsi; infine si è affidata a un Bonaparte da operetta. Mi chiedi dei laici? Qui non esistono. Li ha spazzati via Nasser nel ’54. ElBaradei? L’avete inventato voi giornalisti: ora se ne sta a Vienna ricercato da al Sisi per un reato da pena di morte. Emblema perfetto della sorte dei “laici egiziani”.
Oggi, i Tamarod si limitano a mugugnare sulla nuova Carta Costituzionale (i pochi scesi in piazza sono stati massacrati), i Fratelli musulmani continuano a produrre martiri, in un olocausto senza senso che genera frotte di terroristi. Solo al Sisi parla. Parla molto in televisione e sui media. Ma soprattutto “parla” in piazza, attraverso la piazza. La sceneggiatura che ha apparecchiato a piazza Tahrir è eloquente: ha trasformato l’enorme spazio in una sorta di arena del Colosseo in cui chiunque si avventuri viene stritolato in 10 minuti. Sul lato nord, di fronte al Museo Egizio, quaranta autoblindo con mimetica da deserto e mitragliatrice pesante, stazionano pigre e eloquenti. Inutili nella piazza, portano un messaggio ferale: se ci muoviamo è solo per fare strage. Verso sud, dietro il Mogamma – mostruosa Chester Perry alla Bristow che ospita 18.000 impiegati statali e fannulloni – blocchi di cemento sovrapposti formano le alte barricate, al cui riparo bivaccano centinaia di poliziotti e militari che passano inutili giornate nei viali alberati tra deliziose villine Liberty e ingombrano l’entrata della pasticceria “La poire”, la migliore del Cairo. Fumano, chiacchierano, ma sono pronti a mazziare chiunque voglia fare di piazza Tahrir, piazza Tahrir. Tamarod per primi, eclissati come meteore dal firmamento politico egiziano. Due giorni fa i Fratelli musulmani ci hanno provato. Sono stati dispersi in un attimo. Altri hanno tentato di bloccare la metro: arrestati in un attimo.
E’ il capolavoro di al Sisi: aspirante Bonaparte, ha imbastito il “sequel” della sceneggiata che ha ammaliato per due decenni gli egiziani, interpretata da Abdel Ghassem Nasser. E la ripetizione è peggio di una farsa. Incluse le mutande e i pigiami con la sua effigie in vendita nel bazar.
Una cosa è certa: l’Egitto distoglie lo sguardo dal sangue dei “martiri”, finge di non accorgersi dei massacri cronici, quasi infastidito da questi Fratelli musulmani che il governo dichiara “movimento fuorilegge e terrorista”, che promettono ogni settimana “un milione nelle piazze”, ma si presentano solo con poche migliaia di aspiranti martiri, che contestano il voto per la Costituzione, che attaccano i seggi, ma i loro morti e le loro centinaia di arrestati scavano ancora più il solco con gli egiziani.
Al Sisi ha deciso di consegnarli non solo alle galere di oggi, ma anche alla damnatio memoriae. A inizio anno un lungo comunicato stampa attribuisce alla Fratellanza non solo l’attentato di Mansoura del 24 dicembre (16 morti) e “la messa al rogo delle chiese copte” degli ultimi anni, ma anche i crimini del passato: “Il tentato omicidio di Abdel Ghassem Nasser negli anni 50 (per il quale il rais impiccò Sayyid Qutb, ideologo dell’islamismo e di al Qaida), l’uccisione dello shaykh al Dhahabi e del presidente Anwar al Sadat (portato a segno in realtà da fuoriusciti dalla Fratellanza, tra i quali l’attuale leader di al Qaida, il cairota Ayman al Zawahiri).
La messa fuorilegge è seguita da martellanti comunicati militari che denunciano l’alleanza dei Fratelli musulmani con i terroristi che spadroneggiano nel Sinai. L’8 gennaio, con buona padronanza dei media, Ahmed Mohamed Ali, portavoce dell’esercito, ha postato su Facebook la notizia dell’arresto di un ragazzo di 12 anni, Ayob Mosa Ayad, che progettava di fare esplodere un ordigno artigianale. La notizia dell’arresto del ragazzino è stata accompagnata dal militare da un’accusa gravissima: le indagini avrebbero provato che i Takfiri, legati alla Fratellanza, “reclutano bambini sotto i 15 anni per addestrarli a diventare kamikaze”. I Fratelli musulmani egiziani identici ai più violenti, fanatici e grezzi talebani. Questo dice internet.
Ma il messaggio più scabroso di al Sisi riguarda Hamas. Replicando con grettezza lo schema israeliano, continua a produrre prove, indicare nomi, circostanze e attentati, circa l’appoggio fornito da Hamas a Gaza e ai terroristi che operano nel Sinai. Accuse credibili – Hamas è la sezione palestinese dei Fratelli musulmani – che fanno seguito all’accusa da lui elevata contro Mohammed Morsi, che gli avrebbe impedito durante la sua presidenza di contrastare i terroristi del Sinai che sconfinarono in Israele. Con buona pace dei pacifisti occidentali, anche da parte araba la Gaza di Hamas è considerata un “santuario” del terrorismo islamico. La Egyptian Gazette riporta con evidenza il titolo “Fatah urges Hamas to disengage from terrorist group”. Abu Mazen, insomma condivide l’analisi di al Sisi, con conseguenze disastrose, evidenti a tutti – tranne che al segretario di stato americano John Kerry – sul processo di pace. Gaza è governata da fiancheggiatori del terrorismo. Il Cairo dixit.
Non stupiscono dunque i poteri immensi conquistati da Fattah al Sisi che ha tradito due presidenti. Prima Hosni Mubarak, che l’aveva posto a capo dei servizi segreti militari, salvo essere deposto dal putsch di Palazzo organizzato da al Sisi, Omar Suleiman – suo braccio destro – e dal feldmaresciallo Hussein al Tantawi. Poi ha tradito Mohammed Morsi, che era riuscito a eliminare dalla scena al Tantawi e lo aveva scelto come capo delle Forze armate grazie alla sua nomea di fedele musulmano, dalla moglie ristretta in un impeccabile hijab, con buoni rapporti con la Fratellanza.
Oggi, ritratti di al Sisi dal vago sapore nordcoreano troneggiano su grandi striscioni appesi tra le porte medievali e le botteghe di profumieri di Sikket al Badistan, la più antica stradina del suq di Khan el Khalili. La simbologia è eloquente: al centro, un grande al Sisi, lo sguardo fiero, ma perso nel vuoto, nella divisa che pare plasticata; in basso a sinistra, piccolo, Nasser; in basso a destra Anwar al Sadat. La continuità del regime è netta, chiara, esposta con ingenua onestà. E’ cancellato il solo Hosni Mubarak.
A capo di un Direttorio di generali regalato da piazza Tahrir, senza Termidoro, al Sisi consolida ora le sue ambizioni bonapartiste con una Costituzione che porterà l’Egitto, come sempre da 800 anni, sotto il tallone dei generali. Prima i Mamelucchi eliminati da Napoleone, a seguire Mohammed Ali e i pascià modernizzatori (per strana coincidenza gli uni e gli altri d’origine albanese), poi gli inglesi e infine – dopo la parentesi monarchica terminata ingloriosamente con re Farouk – Nasser, Sadat e Mubarak.
Approvata la nuova Carta, al Sisi sarà padrone dell’Egitto, grazie al combinato disposto della nomina del ministro della Difesa gestita in proprio dai generali e sottratta al potere politico e dell’articolo 204 che stabilisce che chi “commetta un attacco diretto contro le Forze armate” – inclusi gli operai in sciopero nelle tante aziende di loro proprietà – venga giudicato da tribunali militari (quindi, agli ordini di al Sisi). A seguire, trionferà alle presidenziali a cui lo “chiameranno” popolo ed esercito. Il tutto, al riparo di una liberticida “legge sulle proteste”, che delega alle Forze armate la possibilità di vietare ogni manifestazione (per le quali sono necessari ben 7 permessi e che sono proibite la notte), di cui hanno già fatto le spese i più estremisti tra i Tamarod. Di fatto, è proibita una nuova “piazza Tahrir”. Paradosso solo apparente.
Il Foglio sportivo - in corpore sano