E Google ricreò il mondo
“A chi appartiene il futuro?” è una domanda notevole. Jaron Lanier, una divinità della preistoria digitale che inventò la realtà virtuale e poi vide che non era cosa buona, con questa domanda ci ha intitolato il suo ultimo libro, che è un viaggio nella necropoli della classe media, stecchita dalla rivoluzione digitale che prometteva prosperità, mobilità sociale e sorrisi per tutti. Per Lanier il problema è tutto nella grande asimmetria implicita nel meccanismo dell’economia digitale: alcuni dei player cedono, senza chiedere nulla in cambio, la propria merce ad altri che la monetizzano alla grande.
“A chi appartiene il futuro?” è una domanda notevole. Jaron Lanier, una divinità della preistoria digitale che inventò la realtà virtuale e poi vide che non era cosa buona, con questa domanda ci ha intitolato il suo ultimo libro, che è un viaggio nella necropoli della classe media, stecchita dalla rivoluzione digitale che prometteva prosperità, mobilità sociale e sorrisi per tutti. Per Lanier il problema è tutto nella grande asimmetria implicita nel meccanismo dell’economia digitale: alcuni dei player cedono, senza chiedere nulla in cambio, la propria merce ad altri che la monetizzano alla grande. Sono quei miliardi di persone – per inciso: noi – che offrono gratuitamente le loro preferenze, i gusti, le inclinazioni, le abitudini, i dati e i metadati ad aziende che hanno algoritmi e server abbastanza sofisticati per trasformarli in pubblicità e servizi perfettamente tagliati sulle esigenze di ciascuno. Lanier osserva che l’economia digitale, con le sue meravigliose promesse di democratizzazione, l’accesso del popolo alle fonti del sapere fin qui tenute in pugno dalle vecchie élite che si radunano nelle Alpi svizzere ha finito per creare una nuova élite che si raduna in California. La classe dirigente della Silicon Valley ha creato una bolla. Non una bolla speculativa ma una monade oblunga che va da San Francisco a San José, un non-luogo avulso dall’ambiente circostante che vive secondo logiche e mercati propri (il mercato immobiliare della Silicon Valley non ha sentito la crisi: e dire che le spore del grande tracollo si sono insediate proprio lì, nei mutui californiani, e lo stato è scivolato verso il collasso senza che nessuno nella monade se ne accorgesse) nonostante si nutra dell’ideologia dell’iperconnettività, della condivisione e della giustizia sociale che queste dovrebbero generare.
L’esempio di scuola citato da Lanier per spiegare l’origine di questa asimmetria è quello di Kodak, colosso rottamato dalla rivoluzione digitale che nel suo apogeo impiegava 140 mila dipendenti. Quando Facebook ha comprato Instagram per un miliardo di dollari, la start up di dipendenti ne aveva 13. “Instagram – scrive Lanier – non vale un miliardo di dollari perché quei 13 impiegati sono eccezionali. Il suo valore deriva dai milioni di utenti che alimentano il network senza essere pagati”. A chi appartiene il futuro, dunque? Alle aziende che riescono a massimizzare l’efficienza del network. Che poi significa riuscire a estorcere più dati possibili senza offrire nulla in cambio; e i dati sono sparsi ovunque, basta saperli estrarre (si chiama appunto data mining, l’immagine è quella della miniera) e per logica conseguenza gli attori più ricchi e potenti sono quelli che dispongono delle più sofisticate tecniche di estrazione. Il futuro è di chi, marxisticamente, detiene la proprietà privata dei mezzi di estrazione. Risposta ridotta ai minimi termini: il futuro è di Google. Non di Facebook, non di Twitter, non di Apple, di Pinterest o di Spotify – figurarsi di Yahoo! – né della “next big thing” ancora ignota che presto uscirà dal pentolone ribollente della Silicon Valley, ma soltanto dell’onnivoro gigante di Mountain View.
Nick Bilton, responsabile del blog tecnologico del New York Times e fresco autore di un libro sulle origini di Twitter, sintetizza così: “Guardate il panorama tecnologico di oggi e cosa vedete? Alcune aziende – Facebook, Yahoo!, Apple, Twitter e Google – che competono per lo stesso tipo di ricavi: pubblicità, ricerca, mappe e device. Ora guardate il panorama tecnologico di domani e cosa vedete? Ve la do io la risposta: Google, Google e ancora Google”. Il motivo di questo monopolio del mondo che verrà è presto detto: Google si occupa di qualunque cosa, si espande in tutte le direzioni, acquista aziende che lavorano dentro e fuori dalla rete, traffica tanto nel campo dell’immediato quanto in quello dell’inimmaginabile, investe su prodotti che ancora non esistono e forse non esisteranno mai, seguendo quel “salutare disprezzo per l’impossibile” che è uno dei pilastri della filosofia dell’onnipossente ceo, Larry Page. Non che questo significhi allontanarsi dal core business, anzi. I cervelli di Mountain View sanno far di conto e agli azionisti non sfugge che la maggior parte delle entrate al momento proviene ancora dagli originali settori di competenza della compagnia: search, pubblicità, mappe a altri prodotti legati alla navigazione.
La scorsa settimana si è parlato molto dell’ultimo arrivato in casa Google, Nest Labs, azienda di 130 dipendenti fondata alcuni anni fa da due ex ingegneri di Apple e inglobata per 3,2 miliardi di dollari. Nest ha iniziato producendo un termostato digitale particolarmente smart che attraverso un software assai sofisticato raccoglie informazioni sui consumi, sulla temperatura esterna, sulla presenza di persone in casa ed è in grado di reagire di conseguenza per aumentare l’efficienza energetica. La centralina permette, ovviamente, di controllare tutte le funzioni a distanza. Poi gli ingegneri di questa boutique tecnologica di Palo Alto sono passati a produrre segnalatori di fumo intelligenti che, oltre a segnalare emergenze, misurano la qualità dell’aria e rintracciano le eventuali fughe di monossido di carbonio e altri gas nocivi. Dove le persone comuni vedono soltanto oggetti sofisticati e interattivi, Google ha visto dati. Una miniera inesauribile di dati. L’acquisto di Nest è finalizzato alla creazione del “web of things”, una rete fuori dalla rete dove gli oggetti casalinghi – il tostapane, la radio, il frigorifero – prendono coscienza, raccolgono informazioni, reagiscono agli stimoli. Per Google si tratta di fare nella realtà quello che ha già fatto nella realtà della rete. Il ceo di Nest, Tony Fadell, in proposito aveva le idee chiare già anni fa, quando parlava di “un mondo di oggetti dotati di coscienza”, cose inanimate che prendono vita e “datificano” le percezioni: “Ogni volta che accendo la tv, mando l’informazione che qualcuno è in casa. Quando lo sportello del frigorifero si apre c’è un altro sensore che trasmette altre informazioni”, e a questo punto l’immaginazione di un ingegnere di Google già fa vela verso nuovi mondi. E se ci fosse un sistema di telecamere nel frigorifero che controlla e classifica intelligentemente i prodotti che vengono consumati, magari collegata a una app che consiglia una dieta salutare e agli AdSense che lampeggiano mentre navighiamo, suggerendo nuovi cibi, perfetti per i nostri gusti e la nostra salute? Impossibile? Ricordatevi che a Google nutrono un salutare disprezzo per la categoria. E questo è soltanto un esempio. L’acquisto di Nest non dice molto su cosa Google metterà sul mercato domani o dopodomani, ma rivela tutto circa l’atteggiamento di un’azienda che guarda al futuro anteriore mentre tutte le altre sono ferme al futuro prossimo. Fra i dipendenti di Google gira un video che rappresenta il punto d’arrivo – anche se la nozione stessa di “punto d’arrivo” farebbe venire l’orticaria a qualunque googlista – nel livello di connettività della realtà. Mostra come sarà il mondo di Google, uno spazio dove reale e virtuale interagiscono in perfetta armonia, dove i device sono assenti perché il supporto fisico è un’idea ormai antiquata, superata a destra dagli ologrammi che si aprono a piacere, parlano, fotografano, comunicano, condividono, riprendono, danno informazioni istantaneamente. Fuori da Google si fa un gran parlare di Google Glass, gli occhiali interattivi, dentro a Google si lavora per capire come liberarsi degli occhiali. Questo assaggio di un mondo dominato dalla connettività googliana, perfettamente connesso e istantaneo, non è fatto per essere servito al pubblico, almeno non ancora: troppo distopico lo scenario, troppo inquietanti le implicazioni per un osservatore del presente. Google dà corpo alle sue visioni perché compete nel business del futuro. La parabola che raccontano spesso per illustrare l’atteggiamento dominante a Google è quella in cui un agitatissimo ingegnere porta nell’ufficio di Page una macchina del tempo, attacca la spina e parte con la dimostrazione. Incredibilmente la macchina funziona. Tutti i presenti esultano e si congratulano, ma Page placa l’entusiasmo: “Non si può fare senza corrente?”. Applicate questa foga per il superamento di se stessi a qualunque ambito della realtà, dall’email alla medicina ai servizi di spedizione fino alla cybersicurezza ed ecco che l’immagine di Google prende forma. Le altre aziende, al confronto, sono giganti a una dimensione, ripiegati nella comfort zone delle loro precedenti conoscenze, pescatori nello stagno vasto e profondo dell’èra digitale, ma pur sempre uno stagno. Google pesca a strascico nell’oceano.
La campagna acquisti di Mountain View negli ultimi mesi esemplifica il trend: a dicembre Google ha comprato Boston Dynamics, azienda di robotica nata in seno al Mit che produce, fra le altre cose, robot dalle fattezze canine per conto dell’esercito, che spera di utilizzarli presto per esplorare, rintracciare esplosivi, raccogliere dati sensibili in territori ostili e dietro le linee nemiche. Qualche giorno prima ha comprato un’altra azienda che si occupa di design nell’ambito della robotica, Autofuss, e prima ancora è stata la volta delle telecamere per robot di Bot & Dolly, delle ruote digitali di Holomni, dei bracci meccanici di Redwood Robotics e i modelli di robot bipedi ultra agili di Meka Robotics. Industrial Perception si occupa di sistemi di ricognizione vocale e visiva, Flutter di riconoscimento dei gesti, Wavii di codificazione del linguaggio, Makani produce turbine eoliche senza torri di supporto. E se vi state chiedendo cosa c’entrano le turbine eoliche con i cani-robot significa che non è ancora chiaro quant’è vasta – potenzialmente senza limiti – la portata degli interessi di Google. Così vasta che non si riusciva a trovare un nome adeguato per il settore dell’azienda concepito e diretto da Sergei Brin, e così l’hanno chiamato Google X. In questa branca, la più avanzata e segreta dell’azienda, si preparano i “moonshot”, i colpi impossibili, le innovazioni che magari faranno la rivoluzione della prossima generazione ma fino ad allora produrranno forse poco o niente. A Google X non si contempla il fallimento. Anzi, il fallimento è previsto e quasi corteggiato, perché, come ha ricordato Page nella lettera agli azionisti del 2012, “abbiamo scoperto che gli ambiziosi progetti ‘falliti’ possono spesso generare altri dividendi. Che ci crediate o no, l’innovazione tecnologica dietro AdSense, il quale ha fruttato ai partner oltre 30 miliardi di dollari, è il risultato di un più ambizioso progetto fallito per capire meglio la rete”.
Il criterio ultimo per decidere di imbarcarsi o meno in un progetto non è la fattibilità o le previsioni di profitto, ma la qualità dell’ambizione. Se c’è un problema difficilissimo da risolvere, Google ci si butta a pesce. L’invecchiamento, ad esempio, è un bel problema e per questo hanno creato Calico, mega start-up in seno al Googleplex che si occupa di salute e malattie legate all’età. Come affronterà il problema si vedrà poi, intanto si parte, e magari lungo la strada si scoprirà che il solo tentare ha prodotto risultati utili in chissà quale altro ambito. Non ci sono scarti di lavorazione in questa azienda ossessionata dalla massimizzazione dell’efficienza del suo vastissimo network. Google ha portato a un nuovo livello la teoria della mano nascosta di Albert Otto Hirschman, l’economista e sociologo che ha osservato gli enormi benefici nascosti negli effetti collaterali e nelle conseguenze involontarie di imprese fallite. Di solito chi si imbarcava in queste imprese storiche – osservava Hirschman – lo faceva perché qualche dato sfuggiva all’osservazione, altrimenti nessuno si sarebbe arrischiato in un folle investimento senza ritorno. I geologi che hanno studiato il traforo che ha dato una svolta allo spostamento delle merci che arrivavano al porto di Boston – infrastruttura che dunque ha cambiato radicalmente l’economia americana, quindi mondiale – credevano che la pietra di quelle montagne fosse resistente e facile da traforare. In realtà era friabile e bisognosa di continui puntellamenti, caratteristica che ha reso un’opera relativamente semplice ed economica un pantano durato anni e costato agli investitori una fortuna. Ma senza quella galleria l’America non si sarebbe sviluppata così rapidamente, e l’economia americana non avrebbe ricevuto l’impulso irresistibile che il passaggio delle merci da est a ovest ha dato. A differenza di quei costruttori, però, Google si imbarca in progetti impossibili sapendo che sono impossibili. E questo afflato verso l’impossibile è anche il frutto della concezione messianica, salvifica, persino apocalittica che Google ha della tecnologia che produce. Non è un caso se l’espansione verso progetti apparentemente astrusi e certamente lontani dal core business originale dell’azienda ha avuto un’accelerazione dopo che il futurologo Ray Kurzweil è stato nominato a capo degli ingegneri.
Kurzweil è il sommo sacerdote del culto della Singularity, transumanesimo tecnologico che preconizza (e attivamente favorisce) il superamento dei limiti biologici per accedere a una nuova età dove uomo e tecnologia costituiranno un tutt’uno armonioso e immortale. Nanotecnologie, supporti non biologici, robotica, intelligenza artificiale, criogenizzazione, terapie antietà, estensioni della memoria, noosfera che funge da intelletto possibile: tutte le strade possono portare a passare quel punto di non ritorno oltre il quale l’uomo sarà rimpiazzato da un oltreuomo perfettamente connesso al tutto. La tecnoutopia di cui Kurzweil è araldo è enormemente diffusa negli ambienti della Silicon Valley, ma è in particolare a Google che questi concetti trovano spazio e credito. Della trinità che guida l’azienda Brin è certamente l’anima sacerdotale e apocalittica, responsabile dei “moonshot” che conducono verso un futuro il cui volto è ancora da decifrare, ma quel che è certo è che bisogna accelerare nella corsa per afferrarlo. E’ per diffondere il verbo del futuro che ogni venerdì mattina Page e Brin salgono su un palco del Googleplex e, come telepredicatori evangelici della tecnologia, arringano il popolo eletto dell’azienda a cui il futuro già appartiene.
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