Così il riflusso statalista ha annichilito la dinastia Peugeot
I Peugeot, ovvero l’etica protestante e lo spirito del capitalismo in versione francese, si sono arresi. Ugonotti osservanti, tutti responsabilità sociale e imprenditoria consapevole, non hanno mai rinnegato né la fede né i convincimenti liberali, neppure sotto lo stivale nazista. Ma la globalizzazione li ha messi a terra. Se ne va un pezzo della Francia migliore e lascia il posto alla Francia vanagloriosa e arruffona sotto insegne patriottiche.
Bertone La Casa di sistema - Ferrara Marchionne è un caso politico
I Peugeot, ovvero l’etica protestante e lo spirito del capitalismo in versione francese, si sono arresi. Ugonotti osservanti, tutti responsabilità sociale e imprenditoria consapevole, non hanno mai rinnegato né la fede né i convincimenti liberali, neppure sotto lo stivale nazista. Ma la globalizzazione li ha messi a terra. Se ne va un pezzo della Francia migliore e lascia il posto alla Francia vanagloriosa e arruffona sotto insegne patriottiche. La République e il gruppo Dongfeng, che fa capo al Partito comunista cinese, entreranno nel capitale di Psa (Peugeot-Citroën) con una quota del 14 per cento ciascuno, tanto quanto la famiglia fondatrice che aveva il 25 (con il 38 per cento dei diritti di voto). Il tutto avviene con un aumento di capitale riservato di 1,5 miliardi di euro. Vince così Robert Peugeot, amministratore di Ffp (holding che gestisce il patrimonio del clan) favorevole al disimpegno, mentre l’attuale presidente, il cugino Thierry, avrebbe preferito cercare un diverso partner industriale. La data chiave è il 19 febbraio, quando saranno pubblici i risultati finanziari e avverrà l’annunciato passaggio di consegne fra l’attuale capo azienda Philippe Varin e il successore Carlos Tavares, ex Renault. La Borsa di Parigi ha reagito male. Bruxelles tace, anche se tutti i costruttori automobilistici francesi, a questo punto, avranno lo stato come azionista forte. Thierry si era fatto le ossa in azienda come tutti gli esponenti del clan e aveva preso in mano le redini nel 2002 dopo la morte del padre Pierre. Con al comando un manager di ferro e d’ingegno come Jean-Martin Folz, non ci sono stati problemi: al momento delle sue dimissioni, nel 2006, dalle officine uscivano 4 milioni di vetture e dal bilancio un guadagno del 6 per cento sul capitale. Ma Thierry ha mancato la sua prima grande prova puntando su Christian Streiff, poco amato dalla famiglia con la quale è entrato in conflitto sul tema chiave delle alleanze (tra l’altro, un matrimonio con la Fiat). A quel punto, è sceso in campo Robert che ha le chiavi della cassaforte e al quale tocca l’ultima parola. Grande appassionato di Ferrari, si colloca al centro di una nebulosa di cariche distribuite secondo un classico criterio familistico: Marie-Hélène Roncoroni, sorella di Thierry, veglia sulle finanze; Jean-Philippe, figlio di Roland Peugeot, presiede il comitato strategico; il padre e lo zio Bertrand, seguono i mercati. Il pedigree industriale dei Peugeot è più lungo e ricco di quello degli Agnelli, ai quali sono stati spesso paragonati. Le loro origini risalgono al XV secolo sempre a Sochaux nella Franca Contea, quasi ai confini con la Svizzera da dove arriva la riforma di Calvino. I Peugeot, mugnai e agricoltori, aderiscono. Superano indenni le guerre di religione e, con il Re Sole e il suo ministro Colbert che riempie il paese di opifici, passano dalla farina alle tintorie e poi all’acciaio. Resistono anche al Terrore, al ciclone napoleonico, alla restaurazione, e s’arricchiscono con un’altra rivoluzione, quella industriale, fabbricando orologi, macina pepe e caffè, biciclette, i primi ciclomotori. Nel 1889, all’Esposizione universale di Parigi, dominata dalla Torre Eiffel, Armand Peugeot scopre la meraviglia di Gottlieb Daimler: un motore a scoppio alimentato a benzina. La famiglia si ricompone e l’automobile diventa il cuore pulsante finché l’invasione tedesca del 1939 cambia tutte le carte in tavola. Louis Renault collabora; la Citroën, da quattro anni in mano ai Michelin, si blocca nel 1943; alla Peugeot, padroni e operai mettono in campo una vera resistenza passiva, abbassando i ritmi di lavoro e la qualità: la produttività in un anno crolla dell’80 per cento. Quando lo sforzo bellico della Wehrmacht è al massimo, Ferdinand Porsche, il creatore della Volkswagen, insieme al nipote Anton Piëch arriva a Sochaux dove vuole produrre le V1, le bombe volanti. Ma un ingegnere copia i progetti e li passa a César, alias Harry Rée, agente britannico in contatto con la resistenza e con Maurice Jordan, capo azienda e braccio destro di Jean-Pierre Peugeot. La lealtà alla France libre viene apprezzata da Charles de Gaulle, però i Peugeot restano lontani dalla politica. Orgogliosi della loro eccezione culturale e religiosa, socialmente impegnati, hanno rappresentato una Francia laboriosa e solida nei valori, come per altri versi i Michelin.
Invece Marchionne compra tutta Chrysler
Nel 1976 Roland viene costretto dal governo a prendersi la Citroën per evitare che proprio i Michelin portino i libri in tribunale, ma raddrizza l’azienda grazie a un “grand commis” come Jacques Calvet. Il nuovo gruppo si colloca ai vertici europei, con Volkswagen e Fiat. Gelosi della propria indipendenza, i Peugeot l’hanno difesa fino all’ultimo, ma la resa dei conti è arrivata. Alla Peugeot è mancato un Marchionne (del resto, chissà cosa sarebbe accaduto agli eredi Agnelli senza di lui). A Marchionne manca una Peugeot, perché il nuovo gruppo (ieri Fiat ha acquistato l’ultima quota di Chrysler dal sindacato) è tutto americano, al nord con Chrysler al sud con Fiat. In Cina, tenta di recuperare con la Jeep, prodotto di nicchia con grandi concorrenti tra i quali l’anglo-indiana Land Rover. Sul mercato europeo ha una quota del 6 per cento, meno della metà rispetto a fine anni 80. Dunque, è essenziale per Marchionne trovare un socio forte in Asia e un alleato in Europa dove ci sono molti produttori (troppi rispetto alle Americhe), ma pochi seri pretendenti. Tanto più ora che s’è spezzato il filo con i Peugeot.
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