Prima di contestare Renzi, rileggetevi il Berlinguer del 1976
La politica è fatta di coraggio, solidarietà, pragmatismo, obbedienza al principio di realtà. Chi ha letto Niccolò Machiavelli conosce la forza e le virtù della “necessità”, parola che compare praticamente in ogni pagina del “Principe” e dei “Discorsi”. Mentre ripercorrevo, smagato, alcuni passaggi del segretario fiorentino mi è venuta in mente una data: 10 agosto 1976. E’ il giorno in cui Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, interviene alla Camera per spiegare come e perché favorirà la nascita del governo monocolore di Giulio Andreotti, il nemico di sempre.
La politica è fatta di coraggio, solidarietà, pragmatismo, obbedienza al principio di realtà. Chi ha letto Niccolò Machiavelli conosce la forza e le virtù della “necessità”, parola che compare praticamente in ogni pagina del “Principe” e dei “Discorsi”. Mentre ripercorrevo, smagato, alcuni passaggi del segretario fiorentino mi è venuta in mente una data: 10 agosto 1976. E’ il giorno in cui Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, interviene alla Camera per spiegare come e perché favorirà la nascita del governo monocolore di Giulio Andreotti, il nemico di sempre. Il resoconto di quella seduta è illuminante, racconta della qualità degli attori di ieri, della grandezza di un partito e di un leader che nel periglio e nella tragedia di quell’epoca sapevano comunque trasformare la necessità in opportunità, la scomodità in convenienza, l’episodio in storia. E’ un dibattito che illumina gli errori di oggi, gli anacronistici estremismi e, i velleitarismi minoritari, senza voti e, soprattutto, l’assenza di realismo dei contestatori di Matteo Renzi.
Eccolo, quel martedì d’agosto del 1976 di un’Italia così lontana, così diversa, ma storia maestra. Andreotti il giorno prima ha illustrato il programma di un governo monocolore che nasce nell’età del piombo: dodici giorni prima delle elezioni (8 giugno) le Brigate rosse a Genova hanno ucciso il giudice Francesco Coco, la Dc è lacerata da scandali e faide interne, il Pci pensa allo storico “sorpasso”, ma a sorpresa la Balena bianca riemerge, sbatte la pinna e recupera voti, conquista il 38,7 per cento e i comunisti fermano la loro corsa al 34,4 per cento, il massimo storico. I due blocchi – centro e sinistra – in Parlamento si equivalgono (si vota con il proporzionale), l’operazione governo appare quasi impossibile. Ma la necessità aguzza l’ingegno, si fa machiavellicamente virtù politica e per la prima volta nella storia repubblicana le cariche istituzionali vengono spartite tra i due blocchi: il democristiano Amintore Fanfani diventa presidente del Senato, il comunista Pietro Ingrao sale al vertice della Camera. E’ la prima volta che accade. E’ la nobile spartizione, il compromesso su cui si fonda la trattativa per far nascere il terzo governo Andreotti e dare un senso istituzionale all’astensione del Pci di Berlinguer. E’ il modo corretto di interpretare le elezioni del 20 giugno. E vincere la paura.
Il dibattito a Montecitorio è degno di una sceneggiatura cinematografica. Perfetto per un flashback, gioco d’ombre luci e colori di un’epoca che si riverbera fino a oggi, i caratteri dei personaggi sono disegnati per incastonarsi perfettamente nello scenario. Che anno era il 1976? Era un mondo dolce e amaro, lento e veloce. E’ l’anno in cui Corrado inventa “Domenica In”, Steve Jobs fonda la Apple, esce il primo numero di Repubblica, a Milano vengono arrestati i brigatisti Renato Curcio e Nadia Mantovani, il Concorde decolla per la prima volta, la Lancia Stratos di Munari vince il rally di Montecarlo, scoppia lo scandalo Lockheed, la lira viene svalutata del 12 per cento, il generale Videla fa il colpo di stato in Argentina, in Cina Deng Xiaoping viene destituito, in Libano infuria la guerra civile, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” vince l’Oscar, “Taxi Driver” conquista la Palma d’oro a Cannes, Adriano Panatta vince gli Internazionali di tennis a Roma e Björn Borg a Wimbledon, si aprono a Montréal i Giochi olimpici, la Libia di Gheddafi diventa socia della famiglia Agnelli, i terroristi di Prima linea assaltano l’associazione dei dirigenti della Fiat.
E’ un’epoca di lava, ceneri e lapilli. E il Parlamento italiano cerca una risposta di fronte a questa contemporaneità incandescente.
Il presidente Ingrao dà la parola a un giovane segretario di partito, Bettino Craxi. La nuova guida del Psi in luglio ha preso il posto del vecchio Francesco De Martino, ha 42 anni, sprizza energia e mostra il suo pragmatismo in un intervento che fa pelo e contropelo ad Andreotti ma prende atto della realtà: “L’inesistenza, allo stato delle cose, di alternative politiche concrete è la ragione per la quale una soluzione così lontana da quella da noi proposta e auspicata non si è andata subito a infrangere contro il no della nostra opposizione”. Quello del giovane Craxi è l’intervento di un politico già maturo, sicuro, fine nell’analisi, critico ma attento a quello che accade nel Pci berlingueriano: “Consideriamo il Partito comunista per quello che è e che ha saputo essere: un partito cioè che rappresenta una parte importante del popolo lavoratore. E lo giudichiamo anche secondo il suo contributo alla vita democratica del nostro paese. Siamo interessati a che il processo avviato si sviluppi coerentemente e riteniamo che, se ciò avverrà, si determineranno sempre maggiori fattori di novità positiva non solo in Italia, ma in molti paesi europei e nell’insieme dell’Europa occidentale”. E poi c’è lui, Giulio, che guarda sornione dai banchi del governo. Attende la carezza e la zampata di Bettino: “E ritorno a lei, onorevole Andreotti, e al suo governo, per dare una risposta alle voci che accompagnano questo difficile parto: per quanto ci riguarda, siamo contrari a una esperienza ‘balneare’, il governo vivrà nella misura di ciò che sarà capace di fare e per quanto riuscirà a essere utile al paese e alle forze politiche. Ma anche nel mare delle astensioni ci vuole la bussola; non basterà la diplomazia che dice e non dice, servirà la politica”.
E’ un passaggio che mi ricorda il Renzi di questi giorni, quell’ammonimento a Letta che tentenna in mezzo al guado, la formula letale del “governo che si logora se non fa le cose”.
Fuori campo si leva ancora la voce di Ingrao, chiama l’intervento più atteso: “E’ iscritto a parlare l’onorevole Enrico Berlinguer. Ne ha facoltà”. Il segretario del Pci comincia citando colui che poi diventerà la preoccupazione costante dei suoi carteggi: “Signor presidente, onorevoli colleghi, onorevole presidente del Consiglio, comincerò col dichiarare che questo governo è lungi dal soddisfarci. Del resto non siamo solo noi comunisti a esserne scontenti; lo sono anche altri partiti, quali il Partito socialista, il Partito socialdemocratico, il Partito repubblicano, i quali, non per caso, hanno annunciato non un voto di fiducia ma un voto di astensione, con quelle motivazioni critiche che abbiamo ascoltato al Senato e in questa sede – or ora per bocca del compagno Craxi – molte delle quali coincidono con le nostre”.
Segnali di un’intesa, varo del “governo dell’astensione”, unica risposta possibile. E necessaria. C’è forse in Craxi e Berlinguer un presagio indefinito, l’inquietudine, una luna nera crescente per quello che si manifesterà mostruosamente qualche anno dopo: il sequestro di Aldo Moro. Berlinguer fa un passo indietro per farne molti altri avanti, perché è inutile voltarsi indietro e la storia propone “un fatto nuovo”. Quale? “In che cosa consiste la principale novità? Essa sta nel fatto che la responsabilità di dare un governo al paese, pur rimanendo prioritariamente della Democrazia cristiana (dato che essa è ancora, ma esiguamente, il partito di maggioranza relativa), è anche responsabilità nostra, responsabilità del Partito comunista”. Berlinguer si carica sulle spalle un peso enorme, rompe il tabù, concede il via libera a Andreotti, l’uomo che nell’immaginario dei suoi militanti incarna tutto quello che il Pci combatte, il Belfagor arcidiavolo del Machiavelli con il quale non si può giacere. E Berlinguer firma l’entente cordiale sapendo di fare il duro mestiere di uomo di stato, obbedendo alla “necessità”, all’agenda dettata dal tempo e non da desideri irrealizzabili sincronizzati sull’orologio del passato: “Perché abbiamo preso questa decisione? Perché anche in questa occasione, come sempre, il Partito comunista ha avuto come bussola della propria condotta il reale interesse dei lavoratori e del paese. E, proprio muovendo da questa ispirazione, noi abbiamo considerato innanzitutto (…) che votare contro, impedire cioè la nascita di questo governo, già a 40 giorni dalle elezioni e, ripeto, dopo molti, troppi mesi di non-governo, avrebbe significato contribuire noi stessi a gettare il paese in una preoccupante confusione politica”.
Swoosh! Ritorno al futuro. Leggo le dichiarazioni dei Cuperlo e dei Fassina, i distinguo, i mi alzo e me ne vado, e mi chiedo dove sia finita quella cultura di partito, quella dose di realismo e senso del tragico, in coloro che di Berlinguer venerano l’icona. E’ una tradizione che viene da lontano. E l’unico che paradossalmente sembra averla fatta sua è proprio il mai-stato-comunista Matteo Renzi, il giovane fiorentino che forse non ha letto il segretario fiorentino, ma ha letto la “necessità” e l’ha tradotta nell’unica mossa logica e ineludibile per il segretario del primo partito italiano: parlare con Silvio Berlusconi e trattare l’uomo come merita: da leader politico.
Flashback. La scena torna a quel martedì d’agosto del 1976, primo piano su una figura che non sfugge all’obiettivo, è perfettamente a fuoco, scandisce le parole: “Noi siamo giunti alla conclusione che impedire la nascita di questo governo avrebbe oggi giovato soprattutto a quelle forze che puntano a cancellare le novità politiche e parlamentari create dal 20 giugno, a soffocare sul nascere per bloccare tutte le potenzialità che sono in esse (e che hanno solo cominciato a manifestarsi), per riportare quindi all’indietro i partiti e i rapporti fra di essi”. Gong! Ecco il realista Berlinguer, l’uomo della “necessità”, sembra Nixon che visita la Cina nel 1972, la diplomazia del ping pong sul tavolo da gioco della politica italiana.
Mentre scrivo s’ode da destra la battuta di Renzi: “Con chi avrei dovuto parlare? Con Dudù?”. Sberleffo cinofilo ai suoi compagni cinefili, avversari che abbaiano alla luna, figure pietrificate nell’istante in cui si voltano indietro per inseguire un Berlusconi che ancora una volta li ha scavalcati ed è già oltre il fossato che avevano riempito di coccodrilli sdentati. Forse un giorno Renzi ci deluderà o forse ci sorprenderà ancora, ma una cosa è certa: c’è più Berlinguer in lui di quanto ne abbiano mai avuto i suoi contestatori, intenti a contendersi senza merito l’eredità di un leader che conosceva le virtù della necessità.
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