Nessuna morale contro il capitalismo, il lupo di Wall Street è energia pura
Si fa prima a dire cosa non è. Non è un racconto con morale sui danni che si combinano manovrando azioni e promuovendo investimenti truffaldini. Non è un atto d’accusa contro la finanza e la Borsa, intese come forze del male che distruggono il mondo. Non è un manifesto che gli attivisti di Occupy Wall Street possano sottoscrivere. Non è un manuale per broker senza scrupoli che vogliano arricchirsi come Jordan Belfort. Non è un risarcimento per le vittime cadute nella trappola. Non parla di redenzione o di pentimento.
Si fa prima a dire cosa non è. Non è un racconto con morale sui danni che si combinano manovrando azioni e promuovendo investimenti truffaldini. Non è un atto d’accusa contro la finanza e la Borsa, intese come forze del male che distruggono il mondo. Non è un manifesto che gli attivisti di Occupy Wall Street possano sottoscrivere. Non è un manuale per broker senza scrupoli che vogliano arricchirsi come Jordan Belfort. Non è un risarcimento per le vittime cadute nella trappola. Non parla di redenzione o di pentimento (anche se il vero Jordan Belfort dopo averlo visto ha parlato di “esperienza catartica”, già peraltro sperimentata mentre scriveva il libro, uscito da Rizzoli con il titolo “Il lupo di Wall Street”: non è certo lui lo spettatore che Martin Scorsese aveva in mente). Son tre ore in cui Leonardo DiCaprio dà il meglio di sé, sperimentando ogni stile di recitazione. Istrionico quando arringa la sua truppa di venditori-telefonisti. Ingenuo quando per la prima volta viene invitato a pranzo in un ristorante di lusso e mentre il suo mentore Matthew McConaughey sniffa lui non ordina neanche una birra. Debosciato quando arruola prostitute di gran lusso a dozzine. Comico – anzi slapstick – nella scena in cui manda giù pastiglie di Quaalude d’annata, che fanno il loro devastante effetto con ritardo: la risalita in macchina e il ritorno a casa sono da antologia della depravazione (con un salvataggio in extremis che ricorda la puntura di adrenalina in “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino). Parolacce a raffica: sono stati contati 500 “fuck” che però nell’originale francamente non si notano, fusi come sono nei dialoghi. Sesso e ammucchiate, anche in pubblico. Cocaina. Lancio di nani contro il bersaglio. Esportazione di capitali con la complicità dei banchieri svizzeri. Prime mogli tradite e seconde mogli trofeo.
Leonardo DiCaprio si è divertito. Magari un po’ troppo, giacché era anche produttore: sul set improvvisavano parecchio e la montatrice Thelma Schoonmaker avrebbe potuto tagliare qualcosa in più (comunque, meglio questa generosità di certe storielle stiracchiate). Si è divertito anche Martin Scorsese, dopo le fatiche fatte per portare a casa il film: l’idea risale a prima di “Shutter Island”, che era francamente poco interessante con i suoi deliri manicomiali. Meglio i vizi e gli eccessi miliardari, raccontati con tono da commedia anche quando il castigo arriva sotto forma di Fbi. Meglio il ritratto di un truffatore incallito e sempre strafatto. Dichiaratamente di parte: è lo stesso Belfort che racconta la sua storia rivolto allo spettatore, interrompendosi quando sta per scivolare su materie tecniche (“inutile spiegare, basterà sapere che non era legale”).
Mossa cinematograficamente astuta, che però offre il fianco alle polemiche. Rivolte al regista, all’attore, allo sceneggiatore Terence Winter che aveva scritto “I Soprano” (boss mafiosi che sostengono di lavorare allo smaltimento rifiuti) e “Boardwalk Empire” (gangster ad Atlantic City). Non proprio due storie edificanti, ma in quel caso nessuno – a parte qualche italoamericano – ha avuto da ridire. Dev’essere Wall Street che infiamma gli animi, e che impedisce di godersi “The Wolf of Wall Street” per quel che è: un film pieno di energia, scatenato, travolgente, adrenalinico, sopra le righe, volgarissimo e vitale, su un truffatore che alla fine risulta molto più fascinoso del Gordon Gekko di Oliver Stone.
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