Renzi, la borghesia milanese, Bazoli e il “piuttosto che…”
La borghesia finanziaria meneghina ha capito che Matteo Renzi non si può snobbare, anzi, è una risorsa. Certo, le riserve sul renzismo restano – l’irruenza verbale e gestuale da ridimensionare, le battute da bullo spaccatutto, i deficit di fair play, la vaghezza del progetto economico, una squadra alla dirigenza di partito che proiettata al governo non saprebbe da quale parte girarsi – ma uomini della finanza lombarda di vario grado, incarico e soprattutto età, ora riconoscono al trentanovenne segretario del Partito democratico il “coraggio” d’essersi seduto a trattare con l’impresentabile ma imprescindibile Silvio Berlusconi.
La borghesia finanziaria meneghina ha capito che Matteo Renzi non si può snobbare, anzi, è una risorsa. Certo, le riserve sul renzismo restano – l’irruenza verbale e gestuale da ridimensionare, le battute da bullo spaccatutto, i deficit di fair play, la vaghezza del progetto economico, una squadra alla dirigenza di partito che proiettata al governo non saprebbe da quale parte girarsi – ma uomini della finanza lombarda di vario grado, incarico e soprattutto età, ora riconoscono al trentanovenne segretario del Partito democratico il “coraggio” d’essersi seduto a trattare con l’impresentabile ma imprescindibile Silvio Berlusconi. Obiettivo: arrivare a una legge elettorale che punti a ricostruire un sistema politico bipolare col quale garantire governabilità al paese ridimensionando il “potere di ricatto” dei piccoli partiti.
Il cantiere siffatto dell’Italicum non sarà piaciuto a Gianni Cuperlo, dimessosi martedì da presidente del Pd, ma piace a molti nella comunità degli affari. Non solo agli analisti della banca inglese Barclays, agli editorialisti anglosassoni, come Hugo Dixon della Reuters, al Financial Times oppure agli scafati manager italiani di stanza nella City, ma pure ai “grandi vecchi” banchieri cattolici di stampo prodiano come Giovanni Bazoli. Una delle principali preoccupazioni dell’ottuagenario presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, prima banca italiana per sportelli, era infatti quella di vedere sfumare qualsiasi possibilità di un bipolarismo dell’alternanza in un’arena politica perforata dai partitucoli, così riferiva una fonte interna all’istituto ai primi di dicembre scorso quando il governo Letta di lì a poco avrebbe ricevuto l’ultimatum renziano dalle colonne di Repubblica. Con l’Italicum il bipolarismo potrebbe concretizzarsi, sebbene con molte incognite. La prima è che la dialettica partitica non è a due ma a tre (Pd, Forza Italia, M5s) e poi il quorum per il premio di maggioranza non dovrebbe essere inferiore al 35-40 per cento. Al di là dei risvolti tecnici, un indizio sul prototipo di bipolarismo gradito a Bazoli lo può fornire il ragionamento di suo nipote Alfredo – giovani per l’Ulivo a Brescia, Democratici di Prodi, Margherita e poi Pd – ora deputato renziano entusiasta di esserlo. Bazolino, com’è stato soprannominato, ha scritto di “bipolarismo mite” in un post sul sito gazebos.it il 9 ottobre definendolo una “evoluzione” di quel “bipolarismo muscolare” che ha creato un sistema “dominato politicamente e culturalmente dalle ali estreme, e non invece fondato, come in tutte le democrazie mature, sulla competizione per contendersi il centro politico”. Bazoli, 44 anni, confida che esso possa nascere solo da un’intesa Renzi-Letta e da un centrodestra ispirato ai popolari europei. Ma non pensa si tratti di una “rivincita, o rinascita, della Democrazia cristiana” semmai della “politica come compromesso ragionevole, nelle condizioni date, a usare la sobrietà dei comportamenti, a misurare il proprio limite” da realizzare attraverso “un ritrovato impegno di politici cattolici credibili, autorevoli e coraggiosi”.
Bazoli Senior, al contrario del nipote, non è affine alle idee di Renzi, anzi, “i due sono talmente distanti per cultura e linguaggio che difficilmente potrebbero comprendersi”, dice un banchiere di una casa d’affari internazionale. Recentemente però Bazoli ha dovuto ricredersi almeno in parte. Sul finire del 2013 ha iniziato a prestare attenzione al sindaco fiorentino, incoronato segretario del Pd alle primarie dell’8 dicembre scorso. Bazoli non l’ha fatto certo con slancio ma con un’indulgente rassegnazione del padre (elitario) nei confronti del nuovo (scapigliato) che avanza inesorabile. La sua filosofia, spiegata da chi lo conosce, è diventata quella del “piuttosto che… preferisco”. “Piuttosto che” il marasma del passato (la crisi parlamentare scaturita dall’opposizione di Fausto Bertinotti di Rifondazione comunista che portò alle dimissioni di Prodi nel 1997, ad esempio) o il marasma possibile di un Parlamento ostaggio di almeno otto piccoli partiti con percentuali che vanno dal 2 all’8 per cento, “preferisco” l’alternativa renziana che è “l’unica risorsa possibile”. E’ un ragionamento ricorrente nella upper-class lombarda – tendenza sinistra anti berlusconiana – dove, dopo un primo moto di sdegno alla Fassina per via del patto col Caimano, altri hanno abbozzato un “forse è meglio così”, convinti peraltro che Renzi sia talmente simile a Berlusconi (l’affabilità mediatica, la furbizia politica, raccontare l’ovvio come se fosse straordinario, la stessa verve che aveva il Cav. nel ’94) da riuscire a intercettare il bacino dei nostalgici della “prima” Forza Italia nel nord produttivo ma impoverito dalla crisi.
Va detto che all’establishment economico milanese finora è andata malissimo quanto a scelte politiche: in un anno elettorale ricco d’appuntamenti come quello passato, i salotti hanno sempre puntato sul “candidato” perdente. Umberto Ambrosoli – politico navigliocentrico sostenuto un po’ tardivamente e con poca convinzione dall’aristocrazia lombarda – è stato sconfitto alle regionali dal più popolare leghista Roberto Maroni. Portavano in palmo Mario Monti e la sua democrazia tecnocratica sperando in un accordo di coalizione col Pd alle elezioni nazionali ma Monti è andato solo, con un risultato scarso, e il Pd guidato da Pier Luigi Bersani è stato fagocitato da Berlusconi e dalla sorpresa (terrorizzante per la finanza) di Beppe Grillo. Poi a Romano Prodi è stata preferita la saggia continuità di Giorgio Napolitano per il Quirinale. E Enrico Letta? La stabilità statica di Letta certo non dispiace in area ex democristiana tendente a sinistra, terreno di Bazoli. Tant’è che il Corriere della Sera – creatura di Bazoli, proprietà di Fiat – stenta a dare il cuore a Renzi e a “rottamare” Letta. Eppure non si può stare fermi con le riforme in un paese che ogni anno paga 80-90 miliardi d’interessi sul debito; e un banchiere lo sa.
Ora, grazie al patto col Cav., Renzi può dire di avere allargato la breccia nella finanza cattolica un po’ impolverata ma tuttora arroccata sul sistema bancario nazionale (Bazoli lascerà nel 2016 e solo allora Intesa penserà a snellire i suoi organi dirigenziali col passaggio dal governo duale a monistico come vuole la Banca d’Italia). In verità un renziano della prima ora è il manager catto-prodiano, Carlo Salvatori, 72 anni, capo di Lazard e Allianz Italia. Ma Renzi è ben visto anche in Mediobanca, in Unicredit, in McKinsey, in Deutsche Bank, e in Generali. E’ proprio col Leone di Trieste che si è riconciliato il finanziatore renziano, Davide Serra, manager del fondo Algebris che nel 2007 tentò l’assalto all’azionariato della terza compagnia assicurativa d’Europa senza però riuscirci. L’odierna gestione di quel Mario Greco che ha dato il là alla smobilitazione dei patti di sindacato ha invece investito 50 milioni di euro in un fondo lussemburghese del (ex) raider Serra, scriveva ieri il Giornale.
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