Il “protocollo farfalla” dei truffaldi
Li chiamano i “puntellatori”. E sono tutti quei personaggi – a volte poliziotti, a volte mafiosi, a volte pataccari – reclutati da quella particolare filiera dell’antimafia chiodata che, attraverso il processo sulla fantomatica trattativa, mira sostanzialmente a riscrivere in chiave criminale la storia d’Italia e a sputtanare personaggi e istituzioni, a cominciare da Giorgio Napolitano, sui quali si reggono gli equilibri politici del paese. Ricordate Antonio Ingroia? Aveva montato lui il processo del secolo, quello sulla trattativa appunto.
Li chiamano i “puntellatori”. E sono tutti quei personaggi – a volte poliziotti, a volte mafiosi, a volte pataccari – reclutati da quella particolare filiera dell’antimafia chiodata che, attraverso il processo sulla fantomatica trattativa, mira sostanzialmente a riscrivere in chiave criminale la storia d’Italia e a sputtanare personaggi e istituzioni, a cominciare da Giorgio Napolitano, sui quali si reggono gli equilibri politici del paese. Ricordate Antonio Ingroia? Aveva montato lui il processo del secolo, quello sulla trattativa appunto. E lo aveva montato con un tale clamore mediatico da ritenere maturo il tempo di una sua discesa in campo non come gregario di un partito ma, addirittura, come candidato premier. E’ finita come è finita: gli elettori gli hanno assegnato uno zero virgola e Maurizio Crozza ha provveduto, con la gioiosa crudeltà dell’imitazione, a trasformare un sedicente eroe in una macchietta e nulla più. Oggi Ingroia si ritrova a cantare nei matrimoni, tanto per usare una spietata annotazione di Pietrangelo Buttafuoco. Ma il processo sulla trattativa, fragile e traballante, è ancora in piedi davanti alla Corte di assise di Palermo, bisognoso come non mai di trovare nuovi supporter e, soprattutto, di sostituire al più presto non solo i pezzi perduti ma anche quelli arrugginiti o irreparabilmente screditati.
Ingroia, si sa, è stato rimpiazzato da Nino Di Matteo. Al quale è andato in eredità anche il cerchio magico – da Michele Santoro a Marco Travaglio, da Salvatore Borsellino ai ragazzi dell’Agenda rossa – che aveva fatto da corona al suo predecessore e lo aveva adeguatamente impupato per la trionfale discesa in politica. Ma non è stato rimpiazzato Massimo Ciancimino, il pataccaro figlio di Don Vito, che Ingroia aveva battezzato come “icona dell’antimafia” e che “Servizio Pubblico” o il Fatto portavano in processione alla stregua di Nostra Signora della Verità.
Massimuccio era invece un truffaldo che continuava tranquillamente a mafiare come don Vito, sindaco e boss dell’infelicissima Palermo; ed era soprattutto un fabbricatore di prove inesistenti: giocando con la fotocopiatrice inventava e manipolava documenti da attribuire al padre e che consegnava con scadenza rateale a Ingroia: un giorno costruiva il papello che Riina aveva consegnato ai “rappresentanti dello stato” per elencare i compiti che andavano fatti per chiudere in cambio la stagione delle stragi, e il giorno successivo compilava liste nere per mascariare investigatori di altissimo livello che lui presentava invece come collusi e infingardi. Il giochino, come si ricorderà, andò avanti per tre anni, mese più mese meno. Fino a quando il prefetto Gianni De Gennaro, che con Giovanni Falcone aveva guidato l’antimafia vera, quella che arrestava i mafiosi, ha scoperto, da vecchia volpe, il trucco e ha costretto la procura di Palermo a incriminare il picciotto per calunnia.
Finito in fuori gioco il pataccaro – al quale Ingroia aveva trasmesso pure uno smodato senso di impunità: messo persino sotto scorta, gestiva affarucci molto sporchi e nascondeva ventitré candelotti di tritolo nel suo giardino di via Torrearsa a Palermo – al processo del secolo è venuta a mancare di colpo la principale ossatura probatoria. Un disastro. Aggravato dal fatto che, nel frattempo, il tribunale aveva assolto Mario Mori, il generale dei Ros accusato della mancata cattura di Bernardo Provenzano. Mori, nell’immaginario dei puri e duri della procura, pur avendo arrestato nel gennaio del ’93 Totò Riina, avrebbe poi ceduto al fascino della trattativa tra stato e mafia, al punto da regalare all’altro boss dei corleonesi un salvacondotto verso una indisturbata latitanza.
Come rivitalizzare dunque un processo ormai privo di prove e di movente? E’ a questo punto che entrano in scena i “puntellatori”, ovviamente osannati dal cerchio magico e opportunamente coperti dai cosiddetti “apparati”, cioè da quei funzionari dello stato che, storicamente sodali con l’antimafia militante e politicizzata, fanno di tutto per proteggere chiunque si presti a ricostruire – anche con nuove patacche – quelle prove che il crollo di Ciancimino e l’assoluzione di Mori hanno irrimediabilmente polverizzato.
La prima squadretta che risponde all’appello è quella dei pentiti di prima generazione come Giovanni Brusca, il super killer che ha premuto il telecomando per la strage di Capaci e sciolto nell’acido un bambino di otto anni. O come Gaspare Mutolo, o Francesco Onorato, l’uomo che ha sparato a Salvo Lima in un viale di Mondello. Brusca, in particolare, per tutelare la sua permanenza nel servizio protezione dal quale entra ed esce perché non ha mai perso il vizietto della scappatella delinquenziale, è notoriamente il più disponibile: mamma comanda e picciotto va e fa. Infatti, interrogato in aula dal pm Di Matteo, ha ripetuto parola per parola le tesi di Massimuccio. In particolare ha rispolverato la teoria del papello, che ancora però non si trova e che Riina, nella messinscena che dilaga in questi giorni su giornali e tv, dice di non avere mai consegnato a nessuno, meno che meno a Brusca che invece, all’improvviso, si è ricordato di averlo avuto tra le mani.
Ma i pentiti fatti di questa pasta difficilmente riescono a incantare giudici esperti e smaliziati come Alfredo Montalto, presidente della Corte d’assise. Da qui la necessità di coinvolgere “puntellatori” di nuovo conio. Per rilanciare i sospetti su Mori, cancellati dall’assoluzione del tribunale, si è fatto avanti un maresciallo dei carabinieri, Saverio Masi, testimone volontario, il quale ha raccontato di essersi trovato, in base a sue indagini personali, a un passo dalla cattura sia di Provenzano che di Matteo Messina Denaro, a quel tempo numero tre di Cosa nostra, ma di non averli potuto arrestare perché tre ufficiali, di certo legati al generale Mori, gli hanno imposto di starsene buono e di non disturbare il can che dorme.
In soccorso del nuovo “puntellatore” sono arrivati i veterani di “Servizio Pubblico” che, in una puntata di fine maggio dell’anno scorso, hanno sceneggiato, addirittura servendosi di due attori, il colloquio tra Masi e uno dei suoi superiori, il capitano Michele Miulli. Il finto Masi dice: “Li ho visti con i miei occhi, Provenzano e Messina Denaro”. E il finto Miulli risponde secco: “Lo vuoi capire o no che questo Provenzano non vogliamo prenderlo?”. La storiaccia, ovviamente, è finita nel binario morto delle querele e delle denunce per calunnia. Ma nonostante la volontà del maresciallo anche il suo sforzo si è rivelato vano. Primo, perché Masi è stato condannato a sei mesi, anche in Appello, per avere falsificato la firma di un suo superiore in calce a un’autorizzazione per l’uso dell’auto privata nella ricerca di latitanti. Secondo – ed è questo l’aspetto più bizzarro della vicenda – il maresciallo Masi è stato ed è tuttora caposcorta di Nino Di Matteo, il pubblico ministero titolare dell’accusa al processo per la trattativa.
Ma un maresciallo, mascariato da una condanna a sei mesi e dunque bisognoso di riaccreditarsi, si può anche capire: magari avrà sentito Di Matteo parlare delle difficoltà incontrate dal suo ufficio e ha voluto dargli una mano d’aiuto. E si possono capire anche quei giornalisti del cerchio magico che, in cambio dei tanti verbali ricevuti sottobanco, si sono prestati a spacciare – altra patacca – un parasole per la famosa agenda rossa di Borsellino, rubata nell’inferno di Via D’Amelio, dalla “manina manona” di chissà quali servizi segreti, interessati a nascondere le prove dell’insana complicità tra lo stato e i mammasantissima di Cosa nostra.
Non si capisce invece tutto ciò che viene dopo, quando entrano in scena i “puntellatori” di fascia superiore che, spesso con la complicità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, meglio conosciuto come Dap, cominciano a battere in lungo e in largo le carceri speciali, dove sono detenuti Riina e Provenzano, per acquisire testimonianze e confessioni utili a tenere in piedi il processo del secolo. Nell’estate del 2012 è venuto fuori il pellegrinaggio di due professionisti dell’antimafia siciliana, Giuseppe Lumia e Sonia Alfano, il primo pd e l’altra dipietrista, nel carcere di massima sicurezza di Pavia per convertire al pentimento Provenzano, Nino Cinà e Filippo Graviano. Sono entrati come parlamentari, ai quali spetta per legge il diritto di visitare, ma solo per fini umanitari, i detenuti. I due – coperti da un Antonio Ingroia, allora procuratore aggiunto, che a ruota rivisitava gli stessi detenuti eccellenti nella speranza di raccogliere il frutto di quegli illegittimi colloqui investigativi – non solo hanno portato con sé, come assistente e senza che venisse uffcialmente dichiarata la sua professione, l’avvocato Fabio Repici, un esperto nelle questioni opache che spesso avvolgono il pentitismo. Ma hanno soprattutto rivolto ai boss, anche in un siciliano stretto, domande su questioni giudiziarie e processi ancora in corso, domande severamente vietate dalla legge.
Anche questo puntellamento è andato però in fumo: primo, perché nessuno dei tre boss si è “pentito”; secondo, perché la notizia è comparsa all’improvviso sui giornali, certamente non quelli del cerchio magico, costringendo il ministro Paola Severino ad avviare un’indagine poi puntualmente insabbiata.
Ma il fiancheggiamento di Lumia e Sonia Alfano non era stata una iniziativa spontanea e solitaria. Era stato l’avvio del cosiddetto “protocollo Farfalla”, inventato, come in uno sceneggiato televisivo, dagli apparati – procura nazionale Antimafia, Dia e non meglio identificati “servizi” – per avere mani libere dentro le carceri e sottoporre i boss a ogni sorta di stratagemma pur di acquisire notizie e segreti. La messinscena del carcere di Opera, a Milano, dove un mafioso di mezza tacca, Alberto Lorusso, viene arruolato come agente provocatore e messo, come “cimice umana”, al fianco di Totò Riina per strappare al boss ogni parola utile a rianimare il processo di Di Matteo, rientra in questo protocollo.
Che, guarda caso, è stato avviato, con una patacca. In un colloquio con il figlio, regolarmente registrato come tutti i colloqui di Opera, il boss parla della Juventus – e di che altro può parlare sapendo di essere intercettato? – e visti i successi della squadra bianconera si lascia scappare un commento: “La Juventus è una bomba”. Non l’avesse mai detto. La parola “bomba”, allerta le guardie. Le guardie allertano la procura e i giornali, quelli del cerchio magico, si affrettano a comporre titoloni con i quali si dice ai lettori che Riina progetta attentati. Mamma mia, attentati? E a chi? A quel punto nessun organo dello stato può opporsi all’operazione “Farfalla”, con Lorusso trasformato in cimice umana. Un’operazione riuscita, non c’è che dire: Riina monumentalizza Di Matteo, minacciandolo di morte e chiamandolo cornuto; e prende pure in carico le ragioni di Napolitano che, con il ricorso alla Consulta, ha ottenuto la distruzione delle bobine sui suoi colloqui con Nicola Mancino, dando così un’altra “mazzata sulle corna” ai magistrati palermitani. Un dettaglio da non trascurare: da ora in poi, Di Matteo è l’uomo più odiato da Riina mentre il presidente della Repubblica è l’uomo che dal capo dei capi riceve applausi e apprezzamento. Quando si tratterà di convocare Napolitano in aula come testimone e, possibilmente, sottoporlo a un confronto con il procuratore generale della Cassazione per meglio capire se intervenne o no a favore di Mancino, quale corte avrà il coraggio di respingere la richiesta dell’accusa? Il cerchio magico dell’antimafia chiodata già pregusta lo spettacolo. Il processo sulla trattativa può ricominciare.
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