Pericolo estinzione

Roberto Volpi

Nel gennaio del 2013 la Cassazione ha sentenziato che “un minore può crescere in modo equilibrato anche in una famiglia gay”, aggiungendo che non vi sono “certezze scientifiche o dati di esperienza” che provino il contrario. Non si può che prenderne atto, annotando semmai che in questa materia non vale il cosiddetto principio di precauzione – che invece spadroneggia, non di rado in concorrenza col puro vaneggiamento, nelle nostre contrade.

Vitali Il dolore, la rabbia e la “quasi gioia” della madre di un figlio disabile

    Nel gennaio del 2013 la Cassazione ha sentenziato che “un minore può crescere in modo equilibrato anche in una famiglia gay”, aggiungendo che non vi sono “certezze scientifiche o dati di esperienza” che provino il contrario. Non si può che prenderne atto, annotando semmai che in questa materia non vale il cosiddetto principio di precauzione – che invece spadroneggia, non di rado in concorrenza col puro vaneggiamento, nelle nostre contrade. Avrebbe potuto citare qualche studio “scientifico” sui figli di coppie omosessuali svolto da organizzazioni omosessuali, per spingersi a sostenere che questi figli crescono meglio di quelli delle coppie eterosessuali, più forti e pronti per la vita, e con meno pregiudizi. Perché la Cassazione non ci è andata giù leggera su queste materie, fino a oggi. Già nel 2009 aveva stabilito che l’assegno di mantenimento deve essere ancorato al criterio delle “esigenze attuali del figlio”, che non sono soltanto – chiariva – quelle per il vitto, l’alloggio e le spese correnti, ma anche quelle attinenti all’acquisto di beni durevoli (categoria a dir poco oceanica alla luce delle “esigenze attuali” di venti-trentenni in famiglie con un solo genitore). Nel febbraio 2011 aveva sentenziato che l’obbligo di mantenimento in favore del figlio deve essere disposto anche a carico del genitore disoccupato e che non percepisce alcun reddito. Mentre nel febbraio dell’anno successivo aveva stabilito che l’obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio non cessa con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non “dia prova” che il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica.

    Insomma, la Cassazione non ha perso occasione per ribadire la sua linea di condotta in queste materie: rigida tutela non solo dei diritti e delle esigenze (sacrosanta), ma pure delle insofferenze e delle pavidità dei figli, che invece lo sono un po’ meno. Non vogliono lasciare il nido rappresentato da famiglia e casa di origine neppure se hanno trent’anni e non mostrano, pur essendone senza, la volontà di cercarsi un lavoro? Nessuno può obbligarli. Certe sentenze formano un comune sentire, specialmente tra i giovani. Ma ecco che come entrano in campo le coppie omosessuali ogni rigidezza si stempera in “un minore può crescere in modo equilibrato anche in una famiglia gay”. Certo, ci saranno senz’altro coppie omosessuali con una propensione a educare i figli più spiccata di certe coppie eterosessuali. Ma basta questo a fissare la regola?

    Sulla scia delle sentenze della Cassazione il tribunale di Bologna ha dato in affidamento una bambina di tre anni a una coppia omosessuale nel novembre del 2013, mentre il tribunale dei minori di Palermo il 14 gennaio di quest’anno ha preso la stessa decisione con un altro minore. Sempre in Sicilia il governatore Crocetta è riuscito a fare approvare dall’Assemblea regionale siciliana una norma che estende anche alle coppie omosessuali, oltre che a quelle eterosessuali di fatto, le agevolazioni sui mutui e gli altri benefici previsti per le famiglie che hanno contratto matrimonio civile.
    Gli episodi cominciano a fioccare, insomma. La gara a chi è più emancipato, più moderno e libero e spregiudicato nei riguardi degli omosessuali maschi e delle lesbiche, e delle coppie dei due tipi, è ormai apertissima anche da noi. In altri paesi quelle coppie hanno già raggiunto una concreta parità rispetto alle coppie eterosessuali, o ci sono assai vicine: dal matrimonio fino al “diritto al figlio”, con l’adozione o con la possibilità di ricorrere alle più discutibili e spericolate pratiche della procreazione medicalmente assistita.

    Mancava ancora un timbro accademico, per giustificare anche il passo più arrischiato in questa direzione. E’ stato appena provveduto. La Open University britannica ha infatti condotto una ricerca che le ha consentito di apparire su giornali e telegiornali: le coppie più felici sono quelle senza figli, mentre le coppie omosessuali e lesbiche sono più felici delle coppie eterosessuali, in assoluto quelle messe peggio nel ramo felicità (e poi si dice delle università italiane, la Open University si procurava forse tutta questa pubblicità con risultati appena meno “clamorosi”, eppure così in linea con ciò che tutta una certa opinione pubblica à la page voleva sentirsi dire?).

    D’altro canto, sul lato etero, le cose – ammettiamolo – vanno male, per non dire peggio. Non ci si sposa. E questo si sa. Non si fanno figli. E anche questo si sa. Magari non si sa che il 2013 – del quale si conoscono i dati soltanto fino a luglio, e tuttavia sufficienti a definirne la tendenza – sarà l’anno delle minori nascite di sempre in Italia. E magari non si sa che nella popolazione residente in Italia ci sono oggi più abitanti di 70-79 anni che di 0-9 anni (dove 0 – zero – sta per primo anno non ancora compiuto): indicatore sommo di evaporazione demografica in atto. E magari non si sa che questi formidabili indicatori “au contraire” sono stati ottenuti nonostante il boom di immigrati e di coppie di fatto.

    Michele Ainis lamenta sul Corriere la mancanza di diritti civili. Non si capacita, per esempio, perché non sia consentita anche da noi la fecondazione eterologa – e spara la solita cifra delle diecimila coppie che prenderebbero la via dell’estero per potervi ricorrere (cifra non proprio esatta: le coppie italiane che vanno all’estero per trattamenti di Pma sono meno di quattromila l’anno e di queste solo la metà lo fa per ricorrere all’eterologa). Quando si parla di coppie, famiglie e figli, la regola dei nostri più autorevoli commentatori sembra essere proprio quella di non capacitarsi. Farebbero bene a capacitarsi, invece, che tutto l’impegno profuso per favorire da un lato forme di coppie-famiglie con sempre minore responsabilità, e dall’altro di figli comunque ottenuti (e pure riconosciuti, si deve aggiungere, perché sta di fatto che vengono riconosciuti in Italia anche i figli avuti con pratiche di Pma che non sono qui consentite), rischia di annacquare ogni coscienza e pure assennata percezione: delle famiglie come dei figli. A parte le sciocchezze sulla maggiore felicità delle coppie senza figli rispetto a quelle coi figli, le coppie che non intendono avere figli sono in aumento, in Italia e in molti paesi occidentali. La fuga dal matrimonio si va completando con la fuga dai figli. E queste tendenze proseguono, se nessuno fa niente per opporvisi.

    D’accordo, c’è gente che ha sulle scatole, ideologicamente sulle scatole, il matrimonio. Che non sopporta la famiglia e, potendo, l’abolirebbe. Va rispettata, ci mancherebbe. Mi chiedo però se chi governa, al centro come in periferia, debba correrle dietro. Io sono contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso. E, per questa stessa ragione, sono a favore delle unioni civili tra coppie dello stesso sesso. Vorrei vederle regolamentate legislativamente con chiarezza. Ma mi resta difficile capire perché si debbano regolamentare in simil guisa le coppie eterosessuali, che possono sposarsi assai rapidamente e a costo zero, se così vogliono, di fronte a un qualsivoglia ufficiale di stato civile. Mi chiedo perché si debba arrivare, per favorire chi ha in dispetto il matrimonio, a istituire nei comuni i “registri delle coppie di fatto”. Per permettere loro di recarsi presso un ufficiale civile a firmare un registro anziché un altro? Se ritengono che sposarsi sia troppo impegnativo, implichi troppe responsabilità, e non intendono farlo, saranno pur sempre fatti loro – sembra a me. Nessuno li obbliga a sposarsi. Ma perché si dovrebbe premiare la corsa a meno responsabilità? A meno impegno? E’ un diritto? Attenzione, perché quello che si va delineando da tempo è uno scivolamento assai pericoloso. Anche modificazioni che sembrano ovvie stanno dando frutti mica così salutari.

    Si prenda il regime patrimoniale, passato con la riforma del diritto di famiglia del 1975 dalla sola comunione dei beni alla possibilità di scelta tra la comunione e la separazione dei beni. Da quando c’è questa possibilità è lievitata da 0 (uno zero per così dire obbligato, ma pur sempre tale) a 7 su 10 la proporzione dei matrimoni in cui i coniugi scelgono il regime della separazione dei beni. A questi ritmi tempo una dozzina d’anni e la comunione dei beni sarà un reperto del passato, quando ancora si credeva che tra i coniugi la condivisione della vita non dovesse fermarsi di fronte al santuario dei beni, della “roba”. Si preferisce in sempre più ampia misura la separazione dei beni – si argomenta – perché così, in caso di divorzio, c’è meno da questionare, è più facile arrivare a un accordo. Per una sorta di precauzione, insomma. Bene, è il caso di annotare che trattasi di precauzione che si auto-avvera: i matrimoni resistono sempre meno, sempre più coppie si separano e divorziano. Ma c’è un altro motivo, nella scelta, perfino più terra terra: la delimitazione, sin dall’atto d’inizio della vita coniugale, dei “confini delle proprietà” dei coniugi: fin qui arriva il mio, da lì in poi inizia il tuo, ciascuno è caldamente invitato ad astenersi dal penetrare nel territorio dell’altro – pena, la sanzione della legge. Un matrimonio che inizia con queste premesse non è proprio il massimo della vita. Il fatto, poi, che la proporzione di matrimoni religiosi con separazione dei beni non risulti significativamente inferiore a quella che si registra nei matrimoni civili dà da pensare.

    Matrimonio e famiglia stanno perdendo, in Italia come da altre parti e come un po’ in tutto l’occidente, una sfida che è culturale e ideale coi tempi che corrono, e vien da dire con la postmodernità, già da alcuni decenni: qui è il punto.
    Nelle ultime settimane è andato in onda su Rai 1, in più puntate, il film “Un matrimonio”, di Pupi Avati, ispirato alle vicende della famiglia dello stesso regista, che racconta “attraverso quale impervio percorso Carlo e Francesca, che nel lontano 1948 si innamorarono a Sasso Marconi, siano giunti a festeggiare oggi con figli e nipoti le loro nozze d’oro”. Non parlo, ovviamente, della qualità del film. Ma l’effetto spiazzante di quella pellicola è l’aria d’altri tempi che vi si respira. Tempi di quando ancora c’erano le coppie e le famiglie e su coppie e famiglie si poteva ancora contare. Quei tempi sembrano tramontati. L’oggi non è più quello di coppie che arrivano a festeggiare i cinquant’anni di matrimonio tra figli e nipoti. E’ quella stessa immagine a essere stata cancellata. Perché oggi  in società come quella italiana si sta piuttosto provando, anche se non è chiaro quanto consapevolmente, a fare a meno della famiglia tradizionale formata dalla coppia unita in matrimonio più i figli.

    Abbiamo fin qui pensato che gli immigrati per un verso e le coppie di fatto per l’altro non facessero che riempire i vuoti lasciati dalle famiglie tradizionali. Sempre meno di queste famiglie, con sempre meno matrimoni e figli, non dovevano forse essere compensate in qualche modo?  Stiamo in verità riposando su delle illusioni che cominciano a rivelarsi per quelle che sono. Gli immigrati fanno poco più dei due figli in media per donna che rappresentano la soglia di sostituzione, ma quei figli non hanno fatto che ridursi nel tempo e le prospettive vanno tutte in questo senso. Le coppie di fatto sono in aumento, ma a totale scapito di quelle unite in matrimonio. Anzi, la corsa al ribasso della responsabilità – aggravata dalla crisi economica in atto – sta determinando un fenomeno ancora più massiccio, quello delle “coppie di fatto non conviventi”, quelle coppie vale a dire che tali si considerano pur non vivendo sotto lo stesso tetto e per le quali non andrebbero bene neppure l’eventuale riconoscimento né i registri comunali delle coppie di fatto. Ne resterebbero fuori, ammesso e non concesso che tali “conquiste” rivestano per loro un interesse. Cosicché si capisce bene come il rischio di certi “diritti” consista proprio nel premiare il posizionamento dei singoli al livello minimo di responsabilità concepibile al momento senza apparire socialmente sconveniente e, di conseguenza, nel favorire il precipitare del senso di responsabilità personale non nelle sole forme familiari ma in tutta la vita di relazione.

    La famiglia centrata sulla coppia eterosessuale unita in matrimonio e i figli, fattori contingenti a parte, non fa che perdere terreno anche perché (ma non solo perché) le società occidentali si muovono nel segno di una generalizzata equiparazione di tutte le forme di convivenza tra di loro, tanto in termini di diritti che di considerazione sociale e di valenza ideale e culturale. E si muovono così perché la loro organizzazione ruota sempre meno attorno alla famiglia tradizionale, al punto ch’esse credono di poterne prescindere in sempre crescente misura.

    La famiglia tradizionale s’è dimostrata la vera cellula costitutiva della società nell’èra industriale, dello sviluppo centrato sull’industria di base e manifatturiera, con le sue lavorazioni manuali, gli orari rigidi e lunghi, i salari e i diritti sui luoghi di lavoro solo lentamente modificabili e non per opera o a vantaggio di singoli individui ma di gruppi ampi e organizzati a forte coesione e affinità interne. Ma quell’èra è chiusa. Lo sviluppo economico riposa ormai sull’espansione dei servizi, e più precisamente ancora di quelli a bassa se non a nulla intensità di lavoro manuale. Tutti i settori più moderni e a più alta redditività – dall’informazione alle telecomunicazioni; dall’ingegnerizzazione di sistemi e del software alla cultura e alla formazione; dalla finanza alle microtecnologie della bioingegneria fino alla ricerca in generale – non impiegano più il lavoro manuale classico. D’altra parte lo stesso lavoro d’ufficio sta andando incontro a una mutazione che tra dieci anni vedrà il ridimensionamento drastico, se non proprio il tramonto definitivo, della sua quota tradizionale (che resterà quasi esclusivamente confinata nella Pubblica amministrazione). Si lavorerà sempre più in rete, tramite pc collegati aziendalmente tra di loro e accessibili esternamente per le quote che interfacciano utenze e utenti. Si lavorerà ovunque, a cominciare dalle proprie abitazioni, si lavorerà senza orari, senza doversi muovere. I nuovi lavoratori avranno così sempre meno bisogno, singolarmente intesi, della famiglia tradizionale, di averne una e di farne parte. Qui sta il conquibus.

    Ma se questo discorso vale per i singoli vale assai meno, anzi non vale affatto, per la società. Le società, gli stati, non potranno mai dire di poter fare a meno della famiglia tradizionale, a meno di non volersi condannare all’estinzione. E se invece si comportano come se così fosse è perché confondono i due piani, quello dei cittadini e quello degli stati, perché più che non l’etica dei diritti hanno dei nuovi diritti una concezione rozza e politicamente strumentale, guardano all’oggi e al medio periodo, ma non si mostrano interessati ai tempi lunghi o non li sanno scrutare con sensibilità. Mentre invece sono quelli i tempi che, per le società, per gli stati, contano davvero. Continuando così la grande Germania tra cento anni (non mille, cento) sarà la piccola, anchilosata, anemica Germania – sempre che ne resti qualcosa di più delle vestigia. La destrutturazione della famiglia tradizionale presenterà un conto salatissimo a molti stati, per non dire a tutto l’occidente. Con la Germania, l’Italia è tra le prime della lista. Se uno stato segue una linea, legislativa e culturale, che invece di cercare di incanalare e smorzare favorisce di fatto la spinta delle forze e degli assetti economico-produttivi odierni a meno famiglia tradizionale, a meno intensità di famiglia, non ha scampo: a gioco lungo dovrà piegarsi, vinto, sotto il peso di una progressiva e inarrestabile consunzione. Cosicché, mentre la famiglia tradizionale sembra avviarsi al tramonto, già s’intravede la sua micidiale vendetta. Una ragione formidabile per vedere di evitare quel tramonto.

    Vitali Il dolore, la rabbia e la “quasi gioia” della madre di un figlio disabile