Ragazzi, imparate le lingue
Ripartono i bastimenti, veleggiano verso le Americhe, l’Australia, l’Africa, l’estremo oriente. Ma salpano anche dalle sponde del Mediterraneo diretti in Inghilterra, nel Mare del nord, in Germania. Non li riempiono folle scalze e cenciose, ma giovani in jeans e giubbotti, non proletari sconfitti, ma piccolo borghesi frustrati, tutti mossi dallo stesso bisogno, dalla stessa speranza: una vita migliore.
”Eliminare i passaporti è misura di grande importanza per le relazioni economiche, favorisce il commercio, l’industria e il progresso, facilita le relazioni tra i paesi e libera i viaggiatori da noie e vessazioni” (Giovanni Bolis, direttore generale di Pubblica Sicurezza 1879).
Ripartono i bastimenti, veleggiano verso le Americhe, l’Australia, l’Africa, l’estremo oriente. Ma salpano anche dalle sponde del Mediterraneo diretti in Inghilterra, nel Mare del nord, in Germania. Non li riempiono folle scalze e cenciose, ma giovani in jeans e giubbotti, non proletari sconfitti, ma piccolo borghesi frustrati, tutti mossi dallo stesso bisogno, dalla stessa speranza: una vita migliore. E’ il fenomeno di questi ultimi anni che la crisi ha accelerato a un ritmo imprevisto. Così, mentre il morso dell’emergenza spinge a guardare ai profughi e ai migranti che vengono dal medio oriente o dal nord Africa, sfugge allo sguardo la novità, l’emigrazione dai paesi un tempo ricchi che si stanno impoverendo (sia pur in termini relativi). L’uno e l’altro flusso, vengono considerati alla stessa stregua, entrambi allarmanti, e in sostanza negativi. Un senso comune che attraversa gli schieramenti politici. Ma che, come spesso accade, è offuscato dal velo del pregiudizio se non dell’ignoranza.
Prendiamo la “fuga dei cervelli”, il ritornello che più risuona a destra come a sinistra. In realtà, è una grande opportunità, individuale, per chi cerca e trova un posto migliore, un’occupazione ben pagata e realizza la propria aspirazione, ma anche collettiva, per gli stessi paesi d’origine. Ian Goldin direttore della Oxford Martin School ex vicedirettore generale della Banca mondiale, contesta l’espressione stessa e il suo significato nel suo libro “Exceptional people” scritto insieme a Geoffrey Cameron e Meera Balarajan, e pubblicato dalla Princeton University Press. Ma quale fuga, ma quale perdita di risorse, i vantaggi possono essere addirittura calcolati. “Non esiste nessun brain drain ma solo un brain gain”, spiega con un gioco di parole Oded Stark economista norvegese e docente a Harvard e alla Georgetown University: non un prosciugamento di energie intellettuali, ma un loro arricchimento. Il boom della Cina è inconcepibile senza la diaspora che ha fornito l’80 per cento dei capitali investiti nell’ultimo quarto di secolo. Non esisterebbe il primato tecnologico di Israele senza i giovani tornati dalla Silicon Valley. Ma, su una scala diversa, non ci sarebbe la eccellenza delle Filippine nelle cure infermieristiche senza l’esercito di infermieri che dall’arcipelago ha attraversato l’oceano. Non si tratta solo di rimesse, dei sudati risparmi che gli emigrati mettono da parte e mandano alle loro famiglie (ancor oggi importanti soprattutto nei paesi in via di sviluppo); no, le risorse odierne si calcolano in conoscenza, esperienza, relazioni, orizzonti larghi e non più ignoti.
La decadenza della Cina è cominciata nella prima metà dell’Ottocento, quando gli imperatori della dinastia Qing hanno chiuso le frontiere. Lo stesso accadrebbe all’Europa occidentale e all’Italia qualora prevalesse l’ideologia tardo-nazionalista. “Se tutto è globalizzato, perché non il lavoro?”, dice Lant Pritchett della John Kennedy School of Government di Harvard, lo stesso che ha criticato Papa Francesco a proposito della povertà nel mondo (crescente per il Pontefice, decrescente per lo studioso). Dunque, impariamo le lingue e mettiamoci in moto. Un proclama liberale e liberista che non sta appeso come un caciocavallo nell’iperuranio delle idee ma, al contrario, spiega la realtà effettuale molto meglio del pregiudizio protezionista.
Il processo è già in corso senza attendere nessun impulso politico, a differenza da quel che accadde nei primi anni 50 con legislazioni come quella tedesca dei Gastarbeiter. Le cifre più impressionanti vengono dall’Irlanda: 90 mila persone sono emigrate tra aprile 2012 e aprile 2013 e quasi 400 mila dal 2008. In un paese con 4,5 milioni di abitanti è poco meno del 10 per cento. La meta preferita resta il nord America grazie alla lingua, alla storia, alla presenza di robuste comunità soprattutto nel nord-est, dai Grandi Laghi all’Atlantico. E già si materializzano le immagini drammatiche della grande carestia di metà Ottocento. Non siamo certo a quel punto anche se il circo mediatico si nutre di epos popolare, proprio come il cinema di successo.
Le percentuali sono inferiori, ma il fenomeno è ugualmente impressionante in Grecia, da cinque anni in recessione e da dieci mesi consecutivi in deflazione. Con un tasso di disoccupazione medio vicino al 30 per cento (oltre la metà per i giovani sopra i 16 anni) molti lavoratori e professionisti qualificati, tra cui medici e ingegneri, se ne vanno in nord Europa o negli Usa, alla ricerca di maggiori opportunità di lavoro. Anche diversi paesi del medio oriente segnalano un flusso di immigrati dalla Grecia. Il dipartimento britannico del lavoro e della previdenza sociale ha indicato che gli immigrati ellenici sono aumentati del 31 per cento tra il settembre 2012 e lo stesso mese del 2013. Da parte sua, l’istituto di statistica tedesco, Destatis, ha osservato un aumento del 5,1 per cento; la Federazione delle comunità greche del Belgio ha riferito che ci sono anche molti operai, ma soprattutto ricercatori e persino bancari, confermando la diversa natura della nuova migrazione interna al mondo sviluppato.
In Portogallo il governo ha ammesso che nel 2011 se ne sono andati tra i 100.000 e i 120.000 cittadini: oltre il doppio della Spagna, con una popolazione che è quattro volte e mezzo minore. La calamita del Brasile, che parla la stessa lingua è ovviamente maggiore. Secondo i dati del governo brasiliano, il numero degli stranieri legalmente residenti è salito dal dicembre 2010 al giugno 2011 di oltre il 50 per cento: da 961.877 a 1.47 milioni. Con 52.132 unità i portoghesi sono il primo contingente nazionale, davanti ai 50.640 boliviani. Altri 10.000 lusitani sono sbarcati nell’altra ex colonia, l’Angola, che grazie al petrolio sta crescendo a ritmi del 10 per cento l’anno, ma manca disperatamente di ingegneri, economisti, professori soprattutto di lingue, e dove dopo l’esodo seguito all’indipendenza si è ora riformata una comunità portoghese di 130.000 persone. Altri 9.800 nei primi otto mesi dell’anno sono andati in Svizzera, con un aumento di 6.700 persone. Meta di emigrazione resta ancora la Germania.
In Spagna il saldo negativo è di 162 mila persone nel 2012 (ultime cifre ufficiali fornite da Eurostat); comprende sia gli stranieri che ritornano nei paesi di origine, sia gli spagnoli che tentano la fortuna all’estero. E’ ancora una volta la crisi economica che ha spinto molti spagnoli a cercare un impiego in Gran Bretagna, Francia e Germania. Per il futuro le cose non sembrano andare meglio: le previsioni per il 2013, sviluppate dall’Istituto nazionale di statistica spagnolo (Ine), parlano di 299.607 persone in meno in seguito a questo nuovo esodo.
L’emigrazione dall’Italia è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. Secondo il Rapporto Censis 2013 si è passati dai 50 mila del 2002 ai 106 mila del 2012, il 54,1 per cento ha meno di 35 anni e l’incremento è stato particolarmente rilevante (+28,8 per cento) tra il 2011 e il 2012. In tutto oltre 4 milioni e 300 mila italiani hanno ricominciato una nuova vita oltre confine. Motivo principale la mancanza di lavoro, ma anche la ricerca di migliori prospettive; motivi sentimentali ed affettivi; il forte desiderio di sentirsi cittadini del mondo; ed ancora, la lenta e complessa burocrazia e i diritti civili. Più della metà degli intervistati ha constatato una maggiore facilità nella ricerca concreta di un lavoro all’estero e, se ci si riferisce a scatti di carriera o alternative professionali, la percentuale cresce fino al 67,9 per cento. Un milione e 130 mila famiglie ha avuto, lo scorso anno, uno o più membri residenti all’estero per oltre tre mesi. Nel 29 per cento dei casi il parente è ritornato, mentre nel 71 per cento, pari a più di 800 mila persone, si trova ancora all’estero. All’aumentare delle disponibilità economiche, cresce la quota di famiglie con almeno un componente all’estero: dal 3,6 per cento di quelle con reddito attorno a mille euro netti mensili al 10,6 per cento di quelle con reddito superiore ai quattromila euro. Sono le famiglie benestanti ad avere maggiori possibilità di mantenere un figlio o quanto meno di poter sostenere le spese del viaggio e del trasferimento. Dunque, non si tratta di viaggi con la valigetta di cartone, ma con l’assegno di papà.
Poco importa, i costi sono lo stesso elevati, quelli individuali, ma soprattutto quelli che sopporta la collettività: questa è l’opinione corrente. C’è un argomento efficace ed è il seguente: abbiamo pagato le tasse per far studiare i nostri figli e quando le tasse le debbono pagare loro se ne vanno sottraendo risorse allo stato. Dunque, dal punto di vista contabile è uno spreco di risorse nazionali. In realtà questo si rivela un effetto di breve periodo, perché in una prospettiva più ampia le cose sono ben diverse. C’è poi un ragionamento più culturale che proviene soprattutto da ambienti non solo conservatori. Michael Walzer, il pensatore americano “comunitarista”, sottolinea la questione dell’identità e dell’appartenenza. La fuoriuscita dei membri più preparati crea un vuoto che non si riempie facilmente. Mentre l’assimilazione non è facile e pone dei seri rischi soprattutto quando si tratta di migranti da paesi poveri o dittatoriali, per non parlare dalle grandi aree senza stato dell’Africa centrale. E poi c’è la grande questione musulmana. “I valori liberali sono prodotti dalla combinazione particolare di storia, cultura e appartenenza – scrive Walzer – Quindi, gli stati hanno il dovere di proteggere l’integrità di questi valori. Non solo, le comunità hanno il diritto all’autodeterminazione e possono legittimamente rigettare le domande di chi vuole farne parte”.
Eppure proprio quei valori liberali si sono formati nella breve, ma felice èra in cui non c’erano i passaporti, nel secolo tra il Congresso di Vienna e lo scoppio della Prima guerra mondiale in cui è nata la prima globalizzazione. Pochi oggi ricordano che quei documenti rilasciati dalla polizia, erano considerati un residuo dell’età feudale, proprio come sosteneva Bolis, prefetto del regno d’Italia. Vennero reintrodotti in Francia nel 1917 e poi via via in tutti gli altri paesi europei. Tony Judt, nel suo “Dopoguerra” (introvabile in italiano) racconta di come l’Europa fosse multirazziale e multireligiosa ancora fino al 1939. Gli orrori del conflitto, la rinazionalizzazione, l’Olocausto l’hanno spazzata via e prima che calasse la cortina di ferro, il Vecchio continente era già diventato un patchwork di stati nazionali su base sostanzialmente etnica. “Nel 1918 furono inventati e aggiustati i confini, ma i popoli furono lasciati in pace – scrive lo storico inglese – Dopo il 1945 è accaduto quasi l’opposto”. Ne è scaturita “un’Europa di stati nazione etnicamente più omogenei”, nonostante l’impero sovietico si proclamasse multinazionale. Dopo la caduta del Muro di Berlino il senso del limes è riapparso spesso in modo cruento come nei Balcani. E l’Unione europea non ha fatto da argine alla “nuova pulizia etnica” come la chiama Judt. L’ondata nazional-populista di questi anni rischia di riesumarla ancora una volta. La parentesi liberale ottocentesca, chiusa con la Grande guerra e le dittature del “secolo breve”, non si è subito riaperta nel 1945, ma sotto la pressione della decolonizzazione negli anni 60, del cambiamento nelle ragioni di scambio degli anni 70 e della rivoluzione degli anni 80 (tecnologica, sociale, politica). Con la prima crisi della globalizzazione, il protezionismo si ripresenta tingendosi di colori nazionali, comunitari, locali, ambientali, de-sviluppisti, e chi più ne ha più ne metta a destra e a sinistra, da Marine Le Pen a Beppe Grillo, a Serge Latouche, tante forme per la stessa sostanza.
Stando ai sondaggi, sia in Europa sia negli Usa l’opinione pubblica considera la migrazione (in entrambe le direzioni) una tragica seppur spesso obbligata follia; una devastazione sociale ed economica. Eppure, se preso su scala mondiale, il processo è nella sostanza circolare. L’Onu stima oggi 200 milioni di migranti nel mondo pari ad appena il 3 per cento della popolazione, e ha costruito una rappresentazione dei flussi secondo la quale 53 milioni di persone si muovono tra i paesi industrializzati, 14 milioni da qui verso i paesi in via di sviluppo, altri 61 milioni all’interno di quel che un tempo veniva chiamato Terzo mondo e 62 milioni verso i paesi più ricchi. Un movimento continuo, solo affievolito, non interrotto, dalla recessione del 2008, destinato inevitabilmente a crescere. E ciò è un bene.
La Banca mondiale calcola che anche un modesto incremento della migrazione produrrebbe un guadagno sostanziale per l’economia globale. E azzarda perfino delle cifre: un 3 per cento in più di qui al 2025 genererebbe da solo 365 miliardi di dollari; l’apertura totale dei confini produrrà fino a 39 mila miliardi. Altro che incentivi statali o keynesismo in un solo paese: è la libera circolazione degli uomini, prima ancora che delle merci, il sale dello sviluppo. E’ ovvio che non si tratta di turismo organizzato. Sono donne e persone lacerate e coraggiose pronte ad affrontare sfide e conflitti in condizioni ambientali nuove e spesso ostili, per lo meno all’inizio. L’integrazione non è facile, nessun modello funziona davvero né quello americano basato sul vivi e lascia vivere né quello francese o nordeuropeo che tiene il nuovo arrivato in un ghetto assistito finché non conosce lingua, abitudini, lavoro, insomma finché non ha introiettato il proprio posto nella società. E ciò vale anche per i migranti di fascia alta. In Francia la legge Pasqua impediva di trovare un lavoro anche agli stranieri che si erano laureati nelle Grande Ecole. Disposizioni simili erano state introdotte anche negli Stati Uniti dopo il 2000. E oggi David Cameron vuole dare un giro di vite in quella Inghilterra dove Lord Granville, segretario di stato, dichiarava nel 1872 che “tutti gli stranieri hanno il diritto di entrare e risiedere nel paese, senza restrizioni”. Era il 1872, sul trono sedeva Vittoria e Britannia guidava il mondo intero. Ormai, s’arrabatta anche lei per un piccolo posto al sole.
Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, nel 1774 rivolse alla delegazione della Virginia al Congresso un appello per rispettare il sacrosanto diritto di ciascun uomo a muoversi a suo piacimento sempre e dovunque. Quando il filosofo illuminista lasciò il posto al politico, anche lui fu costretto ad accettare dei limiti, con l’argomento che occorreva proteggersi da chi minacciava le fondamenta sociali della democrazia liberale, pagando il suo prezzo al principio di realtà. Il fiume umano che cominciò a muoversi 150 mila anni fa, non si ferma mai. E’ come un’alluvione. Non c’è diga in grado di bloccarlo, tuttavia possono essere costruiti canali per impedire che la sua potenza diventi distruttiva. Il problema è come, e su questo si concentra un dibattito che voglia essere razionale. La soluzione non è affatto scontata perché oggi tutti camminiamo in territori inesplorati con in mano vecchie mappe tracciate in tempi diversi per rispondere a bisogni diversi. Spetta alla politica combinare reale e ideale, fin dalla Repubblica di Platone. Ma non potrà mai più essere una politica nazionale, o meglio la politica del ponte levatoio. Insomma, studiamo le lingue e teniamo pronta la valigia.
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