La concretezza di Gervinho e l'aria fresca indonesiana
Quando in estate Rudi Garcia aveva chiesto Gervinho ai suoi nuovi dirigenti, l'impressione comune era stata quella dell'ennesima fissazione di un allenatore. Un classico nel calcio: uno arriva in un posto nuovo e spinge per avere giocatori che conosce. Per i puri di cuore, si parla di elementi funzionali al disegno tecnico. Per i più maligni, si tratta di fedelissimi che non tradiranno mai oppure, peggio ancora, di spie dello spogliatoio, dal talento inversamente proporzionale alla capacità di servire il capo.
Quando in estate Rudi Garcia aveva chiesto Gervinho ai suoi nuovi dirigenti, l'impressione comune era stata quella dell'ennesima fissazione di un allenatore. Un classico nel calcio: uno arriva in un posto nuovo e spinge per avere giocatori che conosce. Per i puri di cuore, si parla di elementi funzionali al disegno tecnico. Per i più maligni, si tratta di fedelissimi che non tradiranno mai oppure, peggio ancora, di spie dello spogliatoio, dal talento inversamente proporzionale alla capacità di servire il capo. Gervinho rientrava nello schema più positivo, quello di un giocatore che Garcia conosceva bene fin dai tempi di Lille, uno che aveva permesso all'allenatore di centrare l'accoppiata campionato-Coppa di Francia nel 2011 e alla società di monetizzare con una ricca plusvalenza, con una cessione proprio in quell'anno all'Arsenal per dodici milioni, circa il doppio di quanto speso due anni prima per averlo dal Le Mans.
Una cifra su cui sono andati a battere implacabilmente tabloid e critica inglese nelle stagioni londinesi dell'ivoriano. Perché, con i Gunners, all'attaccante tutto riusciva, tranne che tornare ai livelli eccelsi delle stagioni di Lille. Gervinho si era ritrovato, suo malgrado, nel periodo della rifondazione Arsenal, alle prese con cessioni dolorose (l'uno-due sull'asse Fabregas-Van Persie) e risultati sottotono. Inutile sottolineare come fosse finito anch'egli nel vortice delle polemiche feroci, piazzato da Arsene Wenger più in panchina che tra i titolari in campo. Unico acuto (meritevole, tra l'altro) lo schiaffone rifilato all'insopportabile Joey Barton al debutto contro il Newcastle e pagato con le canoniche tre giornate di squalifica. E tra panchine nell'Arsenal e ironie sulle sue effettive capacità, ci si era messa anche la Nazionale, con il rigore decisivo sbagliato contro lo Zambia nella finale di Coppa d'Africa 2012. Per questo Gervinho, in estate, era apparso come l'arrivo meno convincente alla Roma. Un giudizio rivelatosi poi affrettato, incapace di tenere conto che cosa un allenatore sappia sollecitare in un elemento che conosce. Come ha fatto Garcia, fino a rendere Gervinho uno degli elementi più sorprendenti della stagione, per capacità di adattamento e per efficacia di rendimento. Domenica l'ivoriano ha dato l'ultimo esempio di tale qualità a Verona: l'assist per il vantaggio di Ljajic, la rete personale per il 2-1, una prova ancora una volta sopra le righe, per bravura e concretezza. Non un fenomeno, ma uno di cui senti la mancanza quando non può scendere in campo.
Una capacità di adattamento che ha saputo evidenziare anche Erick Thohir, ma sotto il profilo meno gradevole. Al centro della vicenda, il mancato scambio tra Freddy Guarin e Mirko Vucinic, stoppato quando ormai tutto era fatto, armadietti svuotati e visite mediche comprese. Un'operazione di mercato che pareva più figlia del desiderio di liberarsi di un giocatore non più sopportato che di un preciso progetto tecnico, e ci può stare: al limite la si sarebbe potuta criticare a posteriori. Ma Thohir è caduto nell'errore che un presidente non deve mai fare, quello del ripensamento sotto le pressioni altrui. A maggior ragione perché tale passo indietro è stato dettato dalle paure per la reazione dei tifosi che non da una reale convinzione. E quindi sbaglio doppio, perché ora i sostenitori dell'Inter si sentono (giustamente) autorizzati a dettare l'agenda presidenziale, come si è visto a San Siro con la serie di striscioni esposti con il Catania. Uno su tutti, a dettare tre semplici regole: mai affari con Juventus e Milan, un uomo di fiducia in sede, l'addio all'attuale dirigenza. Un pomeriggio che, per il tycoon indonesiano, si è rivelato un Bignami utile a capire come giri il pallone in Italia: è la curva che vuole comandare, altro che gli improbabili sostenitori dei D.C. United negli States oppure il disincanto dell'Nba con i Philadelphia 76ers, le realtà con cui si era finora interfacciato Thohir. Ora sarà interessante vedere quale sarà la reazione, nell'immediato e in un futuro più lontano. Perché l'Inter, in passato, non è mai riuscita a crescere completamente, fin quando giocatori padroni dello spogliatoio e tifosi depositari del verbo nerazzurro hanno trovato una spalla amica in società. Soltanto tagliando questo doppio cordone sarà possibile scrivere una nuova storia, seppure in un difficile momento di spending review. Ma il primo passaggio si è rivelato tutt'altro che incoraggiante.
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