La signora del mattone
Antefatto: è un novembre senza il freddo di novembre, come spesso capita a Roma. E’ una mattina del 1974 e in via Manzoni, quartiere San Giovanni, una ragazza molto bella con i capelli lunghi chiacchiera con i compagni davanti al Santa Maria, liceo e istituto privato. Non è vestita come i coetanei in piena contestazione. Non è vestita come i rossi, non è vestita come i neri. A sedici anni è vestita da grande, con la giacca squadrata e i pantaloni che anticipano la moda che verrà.
Antefatto: è un novembre senza il freddo di novembre, come spesso capita a Roma. E’ una mattina del 1974 e in via Manzoni, quartiere San Giovanni, una ragazza molto bella con i capelli lunghi chiacchiera con i compagni davanti al Santa Maria, liceo e istituto privato. Non è vestita come i coetanei in piena contestazione. Non è vestita come i rossi, non è vestita come i neri. A sedici anni è vestita da grande, con la giacca squadrata e i pantaloni che anticipano la moda che verrà. Sua madre l’ha appena accompagnata in macchina dall’Eur, come tutti i giorni da quando sui giornali si parla di sequestri: cercano i figli dei costruttori, dice mamma. Ma per la ragazza, Angiola Armellini, e per suo padre, Renato, che fra i costruttori svetta da tempo tra luci e ombre, quella è un’esagerazione. I compagni continuano a parlare, Angiola sente la campanella e dice “ciao”. Poi si gira verso il portone della scuola, proprio mentre una 125 azzurra si muove dal parcheggio e accosta. E improvvisamente non c’è più tempo e non c’è più senso: tutto diventa un magma di voci, pianti, urla, clacson. Qualcuno afferra Angiola per la vita, altri due uomini le si parano davanti con le pistole spianate e il volto coperto, come nei telefilm che arrivano dalla California. Non c’è scampo, questa è l’unica cosa che si può pensare, e allora Angiola si butta per terra e comincia a urlare più forte che può. L’aggressore la prende per le braccia, e lei per terra punta i piedi contro la macchina, incastra il tacco in un tombino o nella ruota (i testimoni non concordano) e continua a gridare tutta la paura e la rabbia come se fosse l’ultima voce che ha in corpo. L’aggressore la strattona ma non riesce a trascinarla, forse sente una sirena, forse vede i complici fare un cenno. Fatto sta che la macchina riparte senza Angiola, lasciando lei lievemente contusa e i compagni sconvolti e terrorizzati. Il giorno dopo Angiola andrà in televisione, racconterà il tentato rapimento con tono calmo, dirà che “lo spavento l’hanno preso gli altri” più che lei e si rassegnerà, un po’ scocciata un po’ divertita, a farsi accompagnare a scuola dalle guardie del corpo assunte dal padre seduta stante. “E’ una tosta”, dicevano di lei allora, senza sapere che cosa sarebbe successo dopo.
Dopo, cioè oggi, nel mondo alla rovescia del web e del bar, dove ogni giorno s’affaccia l’urlo dell’anticasta, è successo l’impensabile: poca indignazione, e anzi molta inconfessabile ammirazione per la donna dalle mille case che non pagava l’Imu. “Un genio”, “una grande”, “un mito”, erano i commenti della prima ora alla notizia che Angiola Armellini – figlia di Renato, “re del mattone” anni Sessanta e costruttore sempre sospeso tra legalità, abusivismo e licenze ottenute dalle mitologiche giunte della Balena Bianca – era stata denunciata per presunta evasione fiscale da due miliardi di euro, con occultamento proprietario di milleduecentoquarantatré case a Roma e dintorni, alla faccia dell’Imu, dell’Ici e di tutte le Tares-Tuc-Iuc che da mesi fanno impazzire i compilatori di cartelloni a “Ballarò”. Poi arrivavano, naturalmente, i commenti inferociti del web sulle mille e passa case e su Angiola Armellini nascosta, secondo gli investigatori, dietro “scatole cinesi” con sede lussemburghese o d’oltremare. Ma erano comunque in media meno duri, quei commenti, dell’articolo scritto da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 23 gennaio, in cui si prendeva spunto del caso Armellini per rammaricarsi di tutti i passati falliti tentativi di “mettere le manette agli evasori”: “Nel Duemila si annunciava il carcere per omessa dichiarazione dei redditi”, scriveva Stella, e “da allora sono passati quattordici anni e non se n’è fatto nulla”. E alla fine l’indignazione del web appariva insolitamente flebile, depotenziata, ammansita da quella vena di curiosità: ma chi è questa regina dell’occultamento-case? E perché la storia viene fuori proprio ora?, si chiedevano gli internauti in giorni di tributi scaduti, di file alla Posta e di tutti che s’incazzano (il tassista romano se ne usciva con la sentenza definitiva della vox populi: “Ecche doveva fa’, la signora, farsele magna’ dal fisco, ’ste case?”, e Maurizio Crozza ci faceva la battuta: “Renzi, senti ma… nel dubbio, non ce la vuoi fare una legge elettorale con una che ha frodato due miliardi di euro? Perché l’altro, al confronto, è un dilettante”).
Di tutta la storia, qualche ora dopo, restava soprattutto l’incredulità da cinematografo davanti a un simile possibile gigantesco e sfrontato “maramao” ai doveri del buon pagatore di tasse. E sì, la giustizia prenderà la sua strada. Si vedrà, si saprà, si capirà, seguiranno o non seguiranno altri provvedimenti. Armellini, si legge negli articoli più garantisti, ha già fatto “rientrare” alcune società dall’estero, ma a questo punto a nessuno pare importare più molto dell’aspetto “recupero-crediti”, fatta eccezione per il sindaco di Roma Ignazio Marino, sul piede di guerra per gli arretrati Ici-Imu. Sarebbe forse più semplice, la situazione, se nel frattempo la signora Armellini non avesse aperto un contenzioso con il comune (quando ancora era sindaco Gianni Alemanno) per via delle cosiddette “Case Armellini” a Ostia, appartamenti popolari, un tempo conosciuti come “il Bronx”, che il comune da tempo affitta per tamponare l’emergenza abitativa. Armellini aveva chiesto un aumento rispetto al precedente contratto. Ma la Ragioneria aveva bloccato il tutto, la cosa era rimasta impelagata nelle secche delle elezioni amministrative e il dossier era ripiombato sul tavolo del neo eletto Marino. C’è poi che la signora Armellini, come ha fatto notare il suo ex compagno Bruno Tabacci sulla Stampa, aggregava “ai suoi incontri tutta la Roma che conta” e non era una “che aveva la nomea di essere una frodatrice fiscale”. Non solo: l’ambiente che conta ci faceva affari, a volte, con la signora Armellini, o si intratteneva volentieri con lei (per esempio quando, tramite Tabacci, Angiola compariva in luoghi frequentati dal giro De Benedetti, l’Ing. di Repubblica). Ed è in qualità di ex compagno che Tabacci, sempre sulla Stampa, gentiluomo con Angiola e con se stesso, dice di non aver mai saputo nulla dell’Ici della signora – non era mica “il suo commercialista” – e di essersi separato da lei ben sei anni fa, ma non per questo vuole ora “sparare sulla Croce Rossa”, ché sarebbe troppo facile giudicare “quando uno cade in disgrazia”, e poi comunque a frequentare Angiola non c’era nulla di male, ché “non è mica la signora Ruby”. E siccome in questi giorni Tabacci, deputato del Centro democratico ed ex candidato alle primarie del Pd 2012, s’è trovato in mezzo alla chiacchiera fantapolitica romana per altri motivi (c’era chi lo vedeva “nome papabile” per possibili rimpasti), l’esplosione mediatica del caso Armellini è stata letta dai dietrologi tabacciani addirittura come sintomo di uno “strano tempismo” (“non è che qualcuno voleva mettergli una zeppa sul cammino?”, si sono chiesti nei crocicchi in Transatlantico, mentre Tabacci sudava le sette camicie per eliminare dalla mente dei cronisti e degli internauti quell’accostamento con la signora Armellini, persistente come se Angiola non avesse avuto anche un ex marito (Alessandro Mei, protagonista di vicende e guai giudiziari legati agli affari suoi e della famiglia) o altri amori che, come spesso accade nella vita, non necessariamente valgono la divulgazione ex post. Nella generale sollecitudine a differenziare destini e trascorsi da quelli di Angiola, ieri anche Francesca, sua sorella, manager a capo della “Francesca Armellini holding”, ha diramato un comunicato stampa per dire che “da circa vent’anni è titolare di un gruppo di società” che fanno capo esclusivamente a lei, con vita “del tutto autonoma rispetto a quelle di altri componenti della famiglia”. Si precisa altresì che “le iniziative economiche riferibili” a Francesca “si svolgono tutte in Italia” (no off-shore) e “sono tutte in regola con il pagamento dei tributi”.
E dire che, senza troppi problemi, prima dell’emersione dei fantasmi di cemento, “la bella Roma” di cui parla Tabacci discorreva volentieri con Angiola, incontrandola in vacanza nella Sardegna del sud, al Tanka Village, in giri lambiti anche dai Ligresti, sebbene Angiola conservasse, appena oltre l’apparente socievolezza, la diffidenza istintiva di chi è cresciuto in un contesto di affari e ricchezze carsiche, un po’ visibili e un po’ sotterranee, a seconda del momento. E infatti ora i migliori ambienti si trincerano dietro a una nebbia più fitta di quella che Angiola ha agitato, secondo gli investigatori, come scudo magico anti Imu.
Sarà che tutti, in un certo entourage editoriale e parlamentare, ricordano Angela riservata e sorridente a mostre e inaugurazioni, con una sciarpa sgargiante a segnalarne l’arrivo. O all’aeroporto, intenta a sfogliare fogli asettici di aste immobiliari come fossero pagine di Vogue. O in Costa Smeralda, a casa De Benedetti, ché presso l’Ing., allora, si poteva avvistare la coppia Tabacci-Armellini in vacanza (leggenda dice anche nell’oceano Indiano, tra Mozambico e Madagascar, a bordo dell’Itasca, nelle zone dove talvolta i De Benedetti e i Tabacci-Armellini incontravano – ma a terra – Alessandro Profumo e signora).
“E’ una tosta”, dicono oggi come ieri, nel giorno in cui il nome di Angiola Armellini è tornato alla ribalta. Solo che ora, per Angiola, la ribalta non prevede i toni flautati, le luci soffuse e le dinamiche trasversali dei primi anni Duemila, quando la signora delle case, bella donna con un ex marito, due figli, la residenza a Monte Carlo e una villa di famiglia all’Eur, compariva in pubblico senza troppo comparire. Si dava da fare, Angiola, allora, per la Fondazione che porta il nome di suo padre, con l’intento di “fondere l’arte e la cultura con la nostra attività principale” (l’edilizia) e per “aiutare i giovani”, diceva Angiola da madre di due ragazzi che hanno fatto scuole normali e normali studi all’estero. La Fondazione le ispirava la cosiddetta “Piazza Piccolo Mondo”, struttura che la signora Armellini, nel 2004, definiva “avveniristica” opera “armonizzata con l’ambiente”, e chissà se lo diceva anche per cancellare dal presente l’ingombrante passato di “casermoni” paterni, appena addolciti da vetrate a perdita d’occhio. “Armonizzato con l’ambiente”, il complesso, lo era fin dai lampioni che Angiola – questo almeno disse all’inaugurazione con l’allora sindaco Walter Veltroni – aveva voluto progettare personalmente dopo aver esaminato l’illuminazione di centinaia di piazze d’Europa, per poi mostrarli al pubblico uno per uno durante l’evento multimediale con videoartista, roba che neanche in un film di Sorrentino. Ma non era un capriccio, quello, per lei, e anzi Angiola ci teneva a presentarsi come manager non avventata, anche imprenditrice alberghiera (aveva dato il suo nome e cognome a tre hotel romani, gli ArAn, strutture per congressi e per vacanzieri, segnalate sui motori di ricerca e “apprezzate dalle viaggiatrici”, come si leggeva sulle cronache dalla Fiera del Turismo 2009, anno in cui Angiola vinse il premio Excellent).
Oggi la ribalta, per la signora Armellini, significa non poter restare dietro le quinte come quando era accolta favorevolmente alle cene nelle vesti di “imprenditrice romana” che aveva limato, sbloccato (da precedenti abusi edilizi), sistemato e riconvertito i cosiddetti “mammozzi” edificati da Renato negli anni Sessanta: palazzoni con molti appartamenti tra Tuscolano, Laurentino, Ostiense, Magliana e Ostia, talmente pieni di appartamenti (anche a scapito, a volte, dell’altezza dei soffitti e della reale efficienza dell’allaccio elettrico), da venire indicati per scherzo con un brano della canzone di Sergio Endrigo: “Era una casa molto carina / senza soffitto / senza cucina / non si poteva entrarci dentro / perché non c’era il pavimento / non si poteva andare a letto / in quella casa non c’era il tetto… ma era bella / bella davvero / in via del Matti / numero zero”).
Ma ai tempi di Renato era tutta un’altra storia, e c’era ancora la Dc. Era un’altra storia per un self-made man figlio di self-made man (Annibale Armellini, muratore, giunto a Roma dalle Marche nel primo Dopoguerra). Erano anni di ambizione, speculazione, concorrenza, accordi rischiosi e segrete stanze, e Renato si fece strada tra palazzinari spietati quanto lui e affari fulminei, spesso in anonimato (chi ha costruito questa roba?, si chiedevano gli schizzinosi avvicinandosi al Laurentino), un anonimato rotto dall’improvvisa notorietà negativa per il pasticciaccio di via Mantegna (edificio che il comune voleva abbattere e che Renato cercò in tutti i modi di salvare – poi arrivò la multa).
Erano altri tempi e la corsa di Renato si infrangeva una prima volta contro le accuse di essere un “miliardario invisibile”, per poi riprendere veloce fino all’accusa successiva: bancarotta fraudolenta, truffa aggravata, lottizzazione abusiva. A volte finiva in carcere (per poco tempo), spesso era prosciolto. A volte, semplicemente, se la cavava senza troppi danni o scatenava indignazione come quando, sull’Unità del 23 maggio 1979, veniva descritto come colui che aveva “dato le chiavi in mano” agli occupanti abusivi dei suoi appartamenti, con l’intento, scriveva il quotidiano, di “far acquistare gli stabili dal comune”. Ma ogni volta restavano più o meno intatti i novantamila metri cubi di cemento, il suo regno del mattone. Qualcosa che fece gola ad altri rapitori, stavolta di successo. Accadde nel 1980, il giorno di San Valentino: un gruppo di incappucciati della ’ndrangheta andò a “prenderlo” in ufficio. Seguirono quasi trecento giorni di prigionia, un piccolo giallo (la famiglia all’inizio disse che era in viaggio per lavoro), il pagamento di un riscatto, una liberazione rocambolesca nelle campagne di Palmi, con Renato magrissimo e barcollante che neppure riusciva a parlare. Quel giorno raccontò poco dei mesi più brutti della sua vita. Disse che aveva mangiato quasi solo formaggio e salame. Che era stato colpito a un occhio. Che dopo la liberazione aveva vagato nel buio, per ore, prima di incontrare una volante. Che era rimasto quasi sempre nella semioscurità. Ma non fu questa la sua ultima brutta avventura. Ci fu la rapina in casa, di notte, nel 1993, con brusco risveglio tra i banditi armati in via Marocco, le minacce alla moglie e alla figlia minore e un furto tutto sommato modesto, con i ladri che arraffano solo gioielli e orologi, lasciando le otto Mercedes in garage. Ci fu, soprattutto, pochi mesi dopo, l’altro giallo apparente della sua morte, con Renato che in un mezzogiorno d’agosto scende dalla macchina alla Giannella, Argentario, e dice all’autista “vado a fare una nuotata”. L’ultima. Poco dopo l’autista sente le urla dei bagnanti. Renato è lì davanti, riverso nell’acqua, quasi a riva, non annegato ma stroncato in mare da un infarto. Morte tragica e naturale – ma tutti, a torto, sentendo il suo nome, ci videro subito un altro film. Fu quello il vero inizio dell’età adulta per Angiola, da quel momento capo di fatto dell’impero Armellini. Fu quello, dice chi la conosce, anche l’inizio della fine del suo matrimonio (le cronache parlarono di una “dinasty” romana, con lotte tra cognati e società contese in tribunale). Fu quello il momento, per Angiola, in cui mettere a frutto la freddezza di chi è cresciuto con l’emergenza addosso. Di chi ha osservato il padre lavorare e, dopo l’università, non ha avuto dubbi che la strada fosse ancora immobiliaristica – nel bene e nel male, e fino all’estremo della sovrapposizione di oggi, con Angiola che diventa, nell’immaginario collettivo, “miliardaria invisibile” come a suo tempo Renato. Padre e figlia: Renato terrigno, Angiola tesa a innalzare le sue radici. Fu così che qualche anno fa la signora Armellini si invaghì non di un uomo, ma di un palazzo della Roma rinascimentale, di cui comunque non risultava proprietaria (Palazzo Alberini, a due passi da Castel Sant’Angelo, sfiorato dal genio di Raffaello). Una specie di scrigno in una via che un tempo era dei papi e dei banchieri, e oggi delle salsamenterie per turisti e degli uffici di case di moda, con bellezze artistiche nascoste e svelate grazie a una Angiola aspirante Mecenate: i lavori nel palazzo sono stati seguiti da un esperto di architettura del Cinquecento, Christoph Luitpold Frommel, il cui nome Angiola faceva risuonare alle non frequenti feste in casa sua (a una di queste capitò per sbaglio Mario Segni, in realtà diretto a un concerto di Renzo Arbore in un edificio poco distante).
In bilico tra voglia di uscire dalla riserva indiana di “figlia del palazzinaro” e l’istinto (o necessità) di vivere nascostamente i propri affari, Angiola compariva di tanto in tanto nelle foto mondane, ma mai in quelle stagionali da una seconda casa. Non le si conosceva una bella villa, una barca, un luogo dove svernare (nonostante una residenza a Monte Carlo, dice la Finanza). Era questa la sua cifra: Angiola partiva per vacanze decise su due piedi, con i figli, nei villaggi dove vanno i benestanti, ma non necessariamente i grandi ricchi (capitava che, per la fretta di prenotare, per distrazione o per parsimonia, si ritrovasse in un’isola tropicale nella stagione sbagliata). Né qualcuno ha mai visto Angiola sul litorale romano in lidi esclusivi: sceglieva lo stabilimento con il lettino cigolante e il bar che serve panini un po’ così. Era una posa? Era l’attenzione alle spese che solo un self-made man può trasmettere ai suoi figli (oltre ad Angiola, altri tre)? Era la voglia di non sentirsi privilegiata? Nessuno dei conoscenti l’ha mai davvero capito: Angiola è imprendibile anche psicologicamente, dietro alle case che ora saltano fuori dal nulla come geyser impazziti.
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