Non è solo colpa della Fed
Chi è il superfinanziere che comprò il Perù e ora ricatta l'Argentina
La festa della liquidità monetaria “made in Usa” è destinata a finire. E i mercati finanziari dei paesi emergenti, dove tanta liquidità era affluita negli scorsi anni, non l’hanno presa bene. Al punto che il rischio di una crisi valutaria in questi paesi ieri ha depresso anche le Borse europee. Ma non tutti gli emergenti sono uguali. “L’Argentina paga il prezzo di una politica orrenda”, ha detto ieri al Wall Street Journal online l’avvoltoio che non allenta la stretta sul debito di Buenos Aires.
La festa della liquidità monetaria “made in Usa” è destinata a finire. E i mercati finanziari dei paesi emergenti, dove tanta liquidità era affluita negli scorsi anni, non l’hanno presa bene. Al punto che il rischio di una crisi valutaria in questi paesi ieri ha depresso anche le Borse europee. Ma non tutti gli emergenti sono uguali. “L’Argentina paga il prezzo di una politica orrenda”, ha detto ieri al Wall Street Journal online l’avvoltoio che non allenta la stretta sul debito di Buenos Aires. Paul Singer, gestore e proprietario del vulture fund Elliott management, che a suo tempo acquistò a prezzi di saldo (182 milioni di dollari per titoli dal valore facciale di 2,3 miliardi) i bond di Buenos Aires inceneriti dal default del 2001 e pretende di esser pagato per intero. Non lo faremo mai, ripetono da sempre i ministri di Cristina Kirchner. Ma l’avvoltoio replica con le cifre: la decisione di non trovare un accordo con i creditori è già costata cara al governo, tra 70 e 90 miliardi di debito extra dopo il 2001. Non è il caso di smettere? Forse no, a giudicare dalle parole di Axel Kicillof, ministro dell’Economia e uomo forte del governo che spara contro “il settore finanziario e alcuni settori dell’economia che vogliono destabilizzare il governo e dire che il dollaro vale 13 pesos”, non gli 8 del cambio ufficiale. Ma non c’è finanziere che dia sui nervi al macho di Buenos Aires quanto Singer, 69 anni, il figlio di un droghiere del New Jersey che tra l’altro figura come primo finanziatore della campagna a favore dei matrimoni gay a New York per amore del figlio omosessuale. Un animo gentile che però dà la caccia al debitore argentino con la tenacia di un killer. Ci ha provato in Ghana, facendo sequestrare in un porto africano una nave porteña. Poi ha fatto causa a Buenos Aires presso il tribunale di New York che gli ha dato ragione sia in primo grado che in appello: l’Argentina deve saldare il suo debito senza ricorrere a scappatoie di alcun genere. Dopo le due sentenze, la questione è arrivata alla Corte Suprema, con grave turbamento della Casa Bianca e del Tesoro. Una vittoria di Singer, infatti, sarebbe un precedente scomodo in un mondo dove non sono pochi gli stati debitori a rischio insolvenza (compresa la Grecia) e ancor di più gli “avvoltoi” pronti a volare sulle prede. Ma Wall Street ha fatto quadrato a favore di Singer, intimando al presidente di non schierare la Casa Bianca al fianco dell’Argentina in vista della sentenza decisiva: non si può imporre al creditore di cedere a un diktat di stato. E Singer, almeno per ora, non sembra voler accettare compromessi. La Casa Rosada manda a dire che non offrirà mai a “questo parassita” più di quel che ha dato ad altri creditori, cioè il 30 per cento del dovuto. Ma non saranno certo le ingiurie a far arretrare di un passo l’avvocato che ha fatto fortuna andando a caccia di società o stati in fallimento da cui spremere il valore che gli altri hanno trascurato. Senza impressionarsi troppo a recitare la parte del cattivo. L’Argentina, infatti, non è che l’ultima delle sue vittime. Nel 1996 toccò al Perù: un investimento di 11,4 milioni in titoli “carta straccia” che gli hanno fruttato 58 milioni davanti a una corte americana.
Dalla causa a Walt Disney ai soldi a Romney
Singer, laurea a Rochester e dottorato in legge ad Harvard, non è che ce l’abbia con il Sudamerica: il suo fondo, nel momento peggiore della crisi dell’auto, ha comprato pure Delphi, la casa dei componenti di Chrysler e Gm, minacciando la chiusura se Washington non avesse incluso l’azienda nei programmi di aiuto all’auto. Obama si piegò e Singer intascò più di 1 miliardo di dollari. L’avvocato ha un debole per i tribunali e per il cinema: ha prodotto l’ultima versione de “I Miserabili” con Russel Crowe e Anne Hathaway, ha fatto causa pure a Walt Disney per un preteso plagio. Ma soprattutto perché Singer, grande sostenitore di Mitt Romney e delle battaglie antitasse della destra americana, si professa un feroce nemico delle magie della finanza. A Davos, incurante degli echi delle sommosse argentine, ha fatto dello spirito sui derivati e su altri strumenti per controllare il rischio debito: “Sapete – ha detto ai banchieri – mi piace tantissimo fare soldi su questi strumenti. Ma sono molto, molto dannosi dal punto di vista della società”. Così come le politiche espansive della Fed (“Bernanke andava bocciato al primo anno di economia”) o le nuove regole di controllo sul sistema bancario (“ci vuole una bella dose di stupidità per azzoppare la libertà bancaria, una delle grandi conquiste dell’occidente”). Sempre meno dannosi di un default da cui poi si possono fare buoni affari.
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