#Micurodite

Annalena Benini

Duecentotrenta milioni di utenti non possono essere sempre di buon umore. Non sempre sono felici, equilibrati, sagaci. In mezzo agli spiritosi mancati, fra i maniaci sessuali, i mitomani, gli stalker, i fissati con i giochi di parole e i passivo aggressivi, la complessità dell’esistenza reale si riflette in quella digitale, ed ecco i depressi. Non solo i gravemente depressi, ma anche tutti quelli che stanno per cadere in depressione, e che quindi cambiano il modo di tuittare, usano parole più tetre, sono meno assidui, digitano di più la notte, quando cominciano a non dormire bene.

    Duecentotrenta milioni di utenti non possono essere sempre di buon umore. Non sempre sono felici, equilibrati, sagaci. In mezzo agli spiritosi mancati, fra i maniaci sessuali, i mitomani, gli stalker, i fissati con i giochi di parole e i passivo aggressivi, la complessità dell’esistenza reale si riflette in quella digitale, ed ecco i depressi. Non solo i gravemente depressi, ma anche tutti quelli che stanno per cadere in depressione, e che quindi cambiano il modo di tuittare, usano parole più tetre, sono meno assidui, digitano di più la notte, quando cominciano a non dormire bene, usano parole come: nausea, speranza, stanchezza.

    Time racconta che Twitter potrebbe funzionare come una specie di Grande Fratello buono, che si fa carico della comunità dolente e la spinge a curarsi, a chiedere aiuto, ad andare da un dottore insomma. Poiché la privacy non esiste, infatti, poiché noi stessi ce ne disfiamo ogni giorno pubblicando su tutti i social network le nostre foto in mutande, l’indirizzo del ristorante in cui stiamo cenando con tutta la famiglia (nel caso in cui una ex fidanzata arrabbiata avesse deciso di liberarsi di quel tappo emotivo e regolare i conti), i nomi dei figli, il colore dello smalto e tutti gli stati d’animo, le linee di febbre e il numero di fazzoletti di carta usati durante quel brutto raffreddore, allora potremmo anche abbandonarci con fiducia a Twitter e dirgli: salvaci tu. Un team di ricercatori, coordinati da Microsoft, ha monitorato un alto numero di utenti, si è sorbito le foto di gatti, di scarpe, di tramonti e di bottiglie di vino, ha letto tutte le spiritosaggini, le indignazioni e le recensioni di programmi televisivi (anche questo è un indice di riferimento: più si trova tutto orribile, più si è depressi) e dopo un paio di milioni di tweet ha diagnosticato le depressioni.

    Non è ancora un sistema perfetto, dicono questi scienziati, ha infatti problemi di falso positivo: cioè molte persone sembrano depresse perché usano parole come “suicidio”, “basta”, “addio”, “è tutto uno schifo”, “complotto”, e lo fanno soprattutto di notte, citano nomi di farmaci e passano dall’euforia alla cupezza in due tweet, ma in realtà sono sanissimi. Normalmente nevrotici, tendenti all’iperbole, con cattivo carattere, ma non depressi. Il punto, secondo il team di Microsoft, è separare i depressi dai non depressi (su quattrocentosettantasei utenti di Twitter, centosettantuno sono risultati seriamente in blues) e occuparsene in anticipo. Con una svolta etica che permetta ai social network di fare prediche e dispensare consigli, in nome della salute pubblica.

    Potrebbe andare così, in futuro: un tizio alle quattro del mattino scrive nello stesso tweet le parole “casa” e “stanchezza”, il sistema elettronico mette una bandierina rossa su quel profilo, lo controlla, nota che l’utente ha ridotto il numero medio delle connessioni e delle battutine, ha commentato fatti di cronaca sanguinolenti, non ha pubblicato foto di lasagne fumanti, ha citato solo film molto tristi, compresa la scena della morte della madre di Bambi, e ha tuittato “Something in the way” dei Nirvana.

    Il Twitter Amico entra in azione, scrive all’utente, gli chiede come sta, gli comunica che non lo trova affatto bene, gli consiglia di chiedere aiuto e lo esorta a non lasciarsi andare. Ma come ogni comportamento troppo umano, il nuovo stato etico di Twitter scatenerebbe reazioni emotive: invidia verso chi riceve più attenzioni, pubblicazione di tweet depistanti, recriminazioni pubbliche, ricatti psicologici e una difficile cerimonia degli addii (“per te ero solo un esperimento, non mi volevi bene davvero”). Siamo tutti troppo cattivi per sopportare la fastidiosa svolta della bontà di un social network.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.