Sulla guerra al terrore Obama diventa offensivo pure per Kobe Bryant

Paola Peduzzi

Jon Favreau, ex speechwriter di Barack Obama, trentenne cool e fidanzato con un’attrice, ha pubblicato sul Daily Beast un articolo martedì poco prima che il presidente tenesse l’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Spiegando come nascono i “major speech”, Favreau dice che Obama ha la passione per le storie, per le vite degli americani ordinari che hanno qualcosa da insegnare: di solito la migliore la tiene per concludere il discorso, “il mio ex capo adora i lieto fine, e ci avrebbe fatto scavare ovunque per trovare l’aneddoto giusto”.

    Jon Favreau, ex speechwriter di Barack Obama, trentenne cool e fidanzato con un’attrice, ha pubblicato sul Daily Beast un articolo martedì poco prima che il presidente tenesse l’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Spiegando come nascono i “major speech”, Favreau dice che Obama ha la passione per le storie, per le vite degli americani ordinari che hanno qualcosa da insegnare: di solito la migliore la tiene per concludere il discorso, “il mio ex capo adora i lieto fine, e ci avrebbe fatto scavare ovunque per trovare l’aneddoto giusto”. Il discorso di martedì sera si è concluso con il tributo a Cory Remsburg, un ranger che è quasi morto in Afghanistan colpito da una bomba che gli ha spappolato il cervello, e che ora è cieco da un occhio, ma riesce a parlare e a muoversi. Era presente, Remsburg, vicino a suo padre e a Michelle, e si è preso un lungo e bell’applauso.

    La storia commovente di Remsburg è parsa ancor più un espediente retorico se si guarda a quel che Obama aveva detto poco prima sulla guerra al terrore e sulla politica estera. Nel 2012, nella stessa occasione, il presidente aveva celebrato la sconfitta di al Qaida (era stato ucciso Osama bin Laden), quest’anno ha detto, come sempre, che la minaccia c’è, è necessario stare all’erta, ma ha fatto una distinzione tra diverse anime del movimento terrorista, tra la “core leadership” e gli altri gruppi che si muovono tra medio oriente, Africa e Asia. Obama vuole che la guerra permanente in cui è coinvolta l’America finisca, non vuole mandare soldati a morire per questa guerra, “dobbiamo combattere le battaglie (applauso) che vanno combattute, non quelle che i terroristi preferiscono che noi combattiamo”. I terroristi non sono più un’entità unica, ci sono battaglie su più fronti, come aveva detto due settimane fa Obama al direttore del New Yorker; David Remnick, componendo una metafora perfetta e terribile assieme: “Se i giocatori di una squadra di basket universitaria si mettono la maglietta dei Lakers non diventano Kobe Bryant”. Ayman al Zawahiri, attuale leader di al Qaida con sede si pensa in Pakistan, non sarà come Bin Laden, il Kobe Bryant del terrorismo globale, ma Peter Bergen, uno dei più grandi esperti al mondo del terrorismo jihadista, ha scritto che al Qaida e i suoi affiliati controllano oggi più territorio di quanto ne abbiano mai controllato nella loro storia. I terroristi che sabato, in Sinai, hanno tirato giù con un missile (in arrivo dalla Libia) un elicottero dell’esercito egiziano fanno parte di Ansar Bayt al Maqdis, un gruppo che ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi, che è il leader dello Stato islamico dell’Iraq e Sham, cioè quell’“affiliato di al Qaida”, secondo la dizione obamiana, che avanza in Siria, ai danni dei ribelli “moderati”, e in Iraq, dove è ormai a 25 miglia dall’aeroporto di Baghdad. La linea di terrore dalla Libia alla Siria – con una base che sarà sempre più solida tra Pakistan e Afghanistan dopo il ritiro degli americani – ha tutta l’aria di essere un fronte unico, e dai discorsi di al Baghdadi sembra anche che ci sia intenzione di far cambiare idea a Obama: “Sarete presto forzati a un confronto diretto”, concludeva il suo discorso del 20 gennaio, senza espedienti retorici di alcun tipo.

    Elias Groll, su Foreign Policy, ha messo in fila tutto quel che Obama ha detto sulla politica estera nei discorsi sullo stato dell’Unione dal 2009 a oggi e la sua sintesi è: “Questi discorsi simboleggiano l’arco delle iniziative di politica estera di Obama: grandi speranze seguite da illusioni distrutte”. C’è ora la convinzione che la diplomazia stia funzionando. Obama ha fatto un esempio iniziale piuttosto scentrato, quando ha detto che grazie alla diplomazia le armi chimiche siriane sono ora fuori dal paese: in questi giorni la diplomazia in azione ai colloqui di Ginevra 2 è riuscita per ora a negoziare soltanto gli aiuti umanitari a Homs (e ancora non sono confermati, dopo quattro giorni di discussione, perché la questione vera è se Bashar el Assad li fa passare, i convogli di aiuti, o no). Ma poi Obama ha parlato di quel che davvero gli sta a cuore: la diplomazia ci sta facendo fare la pace con l’Iran. Il presidente ha detto che ora ci sono le prove che la Bomba, gli iraniani, non la stanno costruendo, e che anzi vogliono mettersi a dialogare: chiunque si metta in mezzo a questa trattativa – leggi: i falchi del Congresso – si troverà con un veto presidenziale in mano. “Se John F. Kennedy e Ronald Reagan hanno potuto trattare con l’Urss, allora un’America forte e fiduciosa può negoziare con avversari meno potenti oggi”, ha sentenziato Obama. Il quadro è completo: meno guerra più trattative, e il male che verrà, quando verrà, lo gestiremo con la persuasione. Ah, e questo è l’anno in cui Obama chiude Guantanamo.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi