La rabbia di Ankara
La lira fa ballare il “modello turco”. Erdogan urla ancora al complotto
In Turchia la Banca centrale ha deciso di reagire à la Erdogan, quindi con durezza e aggressività, al rischio di tracollo della moneta nazionale che stava precipitando rispetto a euro e dollaro. Alla mezzanotte locale la Banca centrale turca ha alzato il tasso d’interesse base dal 7,75 per cento al 12 per cento, una manovra d’emergenza che al mattino di ieri ha fatto recuperare circa il 4 per cento alla lira sul dollaro, anche se l’effetto potrebbe durare poco.
In Turchia la Banca centrale ha deciso di reagire à la Erdogan, quindi con durezza e aggressività, al rischio di tracollo della moneta nazionale che stava precipitando rispetto a euro e dollaro. Alla mezzanotte locale la Banca centrale turca ha alzato il tasso d’interesse base dal 7,75 per cento al 12 per cento, una manovra d’emergenza che al mattino di ieri ha fatto recuperare circa il 4 per cento alla lira sul dollaro, anche se l’effetto potrebbe durare poco. In serata, poco prima che i capi della Banca diretti dal governatore Escem Basci si riunissero per prendere la decisione, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva detto di sperare che i tassi non sarebbero stati alzati, “sono sempre stato contrario e lo sono ancora”. Il primo ministro, salendo a bordo dell’aereo che lo ha portato in Iran per una visita ufficiale carica di significato, ha detto di non avere alcuna autorità per intervenire sulle decisioni della Banca, ma di sperare lo stesso che avrebbe preso la decisione giusta. Non è stato esaudito, anzi.
La crisi della lira s’intreccia con la crisi politica e personale di Erdogan, che è ancora saldamente in vantaggio nel gradimento popolare – così dicono i sondaggi politici per le elezioni locali di marzo e per quelle presidenziali di agosto – ma sta alzando il livello dello scontro ad altezze pericolose. Da giugno, dagli scontri in piazza per Gezi park, continua a parlare di un complotto straniero per levarlo di mezzo e a usare toni duri contro chi lo sfida. A dicembre è esplosa la guerra politica con i seguaci di Fethullah Gülen, un predicatore islamico suo ex alleato che controlla un impero internazionale con base a Saylorsburg, in Pennsylvania. Un’inchiesta per corruzione ha costretto alle dimissioni quattro ministri di Erdogan e ha lambito la sua famiglia, lui ha reagito gridando al colpo di stato e accusando una “organizzazione segreta dentro la magistratura e la polizia” che sarebbe controllata da Gülen e servirebbe gli interessi di “potenze straniere come l’America e Israele”. E’ seguita una purga gigantesca dentro le file della polizia e dei giudici contro chi fosse sospettato di slealtà verso Erdogan, qualche tentativo legislativo di mettere le nomine dei giudici sotto il potere del governo, un rimpasto di dieci ministri su 26 e naturalmente la solita stretta contro i giornalisti – che in Turchia non se la passano per niente bene. A fare le spese delle teorie del complotto di Erdogan sono stati anche l’ambasciatore americano, che lui vorrebbe espellere, l’ex direttore della Cia David Petraeus, che lui considera a conoscenza di tutto il plot per rimuoverlo dal potere e i media stranieri, alleati con gli speculatori – la lobby dei tassi d’interesse – e con l’arcinemico Gülen. Martedì, prima della riunione della Banca centrale, Erdogan ha attaccato in un discorso ai parlamentari il Wall Street Journal e la Bbc, assieme ad alcuni grandi affaristi turchi: “Cari fratelli queste organizzazioni hanno sempre rubato la volontà popolare in questo paese. Si sono messi in tasca le risorse e l’energia di questo paese. Soltanto la Bbc? Anche il Wall Street Journal. Chi sono i capi di questi giornali? Chi possiede questi giornali?” (entrambi hanno intervistato di recente Gülen). Al predicatore è andata peggio: nelle scorse settimane è stato paragonato dal primo ministro furente al capo della setta medievale degli assassini. Da quando è scoppiata questa guerra politica la lira ha perso il 20 per cento contro il dollaro.
Bombardamenti contro lo Stato islamico
La stagione dei successi di Erdogan, che sembrava saper coniugare un islam politico moderato con la rinascita economica del paese, sembra finita. La sua dottrina in politica estera, “zero problemi con i vicini”, sembra adesso una beffa crudele: non c’è un vicino con cui non abbia problemi anche violenti, soprattutto a causa della guerra in Siria. Ieri jet turchi hanno colpito dentro la Siria il gruppo estremista più forte, lo Stato islamico. Il viaggio di ieri in Iran, dove Erdogan ha firmato un protocollo per la cooperazione strategica, serve a provare a risistemare la situazione. Il suo emulo più entusiasta, l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi, grida da dietro una gabbia insonorizzata al Cairo in un processo che potrebbe condannarlo a morte. Il New York Times ieri ha pubblicato un editoriale durissimo che invita l’Amministrazione a fare i conti con un autoritario di tale livello. E l’economia, che quando va bene è il grande propulsore di qualsiasi governo, è presa nella crisi generalizzata dei paesi emergenti, che sembravano forti e invece ora arrancano. Anche Sudafrica, India, Brasile sono esposti e fragili come non succedeva da tempo. Se la congiuntura globale si posa su una crisi turca dalla dinamica così complicata, si capisce il furore del primo ministro.
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