Tu giochi, io ti spio
Bugie e verità. Forse Barack Obama non ha mai letto le memorie di sir Winston Churchill, ma di sicuro lo scandalo delle intercettazioni gli ha insegnato che dire le bugie per sapere la verità è un’arma a doppio taglio. Dopo il Datagate, il presidente americano ha varato una non-riforma della National security agency (Nsa), l’agenzia di spionaggio delle attività all’estero. Un maquillage. Difficile conciliare sicurezza e privacy, impossibile spiare senza essere spiati.
“In wartime, truth is so precious that she should always be attended by a bodyguard of lies”, Winston Churchill
Bugie e verità. Forse Barack Obama non ha mai letto le memorie di sir Winston Churchill, ma di sicuro lo scandalo delle intercettazioni gli ha insegnato che dire le bugie per sapere la verità è un’arma a doppio taglio. Dopo il Datagate, il presidente americano ha varato una non-riforma della National security agency (Nsa), l’agenzia di spionaggio delle attività all’estero. Un maquillage. Difficile conciliare sicurezza e privacy, impossibile spiare senza essere spiati. Il club dell’intelligence è rigorosamente vietato a chi vuol farsi solo i fatti propri. Tutti guardoni, come nel film “La Conversazione” di Francis Ford Coppola (1974) dove l’investigatore privato Harry Caul è ossessionato dal timore di essere a sua volta spiato e finisce per distruggere il proprio appartamento alla ricerca di una cimice. Ilarità sullo schermo, paradosso della storia, un dramma per chi fa la spia. Secondo l’Associated Press lo Zar dell’intelligence americana (l’Office of the Director of National Intelligence, Odni, la federazione che coordina le sedici agenzie di spionaggio) ha affidato da poco a cinque team di ricercatori il compito di tener lontane le compagnie telefoniche dal registro delle intercettazioni. Nomi top secret anche per loro. Come dire, non potete spiarci mentre spiamo. Durante il discorso pronunciato a Washington il 17 gennaio scorso, Obama ha detto: “I servizi segreti non possono funzionare senza la segretezza, il che rende il loro lavoro meno soggetto al dibattito pubblico. Certamente c’è un’inevitabile tendenza non solo all’interno della comunità dell’intelligence, ma tra tutti noi che siamo responsabili per la sicurezza nazionale, di raccogliere sempre più informazioni, non di meno […] La tecnologia per la sorveglianza e il nostro bisogno di informazioni digitali si sta evolvendo molto più velocemente di quanto lo facciano le nostre leggi”. In questo passaggio il presidente americano fa riferimento a due necessità. Dice infatti che le agenzie d’intelligence hanno bisogno di raccogliere “sempre più informazioni”, e che la sfida del futuro è quella delle nuove tecnologie, che si evolvono molto più rapidamente di quanto si riesca a controllare. Internet, e in particolare tutti quei (non)luoghi virtuali in cui gli utenti possono scambiarsi informazioni, denaro, idee: i giochi in rete, per esempio. Anzitutto c’è un problema tecnico, ovvero l’elaborazione del numero di dati raccolti (tendente a infinito). Ma le difficoltà incontrate dalle agenzie di spionaggio nel pagliaio delle comunicazioni virtuali è ancora più evidente se si studiano i dossier del passato. E gli anni chiave per riflettere sui cambiamenti che vive oggi l’intelligence sono quelli tra il 2007 e il 2008, quando i servizi americani si rendono conto che milioni di persone intrattengono relazioni online giocando, e decidono di studiare il fenomeno.
In principio furono World of Warcraft e Second Life. Il primo è un videogioco fantasy creato dalla californiana Blizzard entertainment, il più utilizzato tra i mmorpg – acronimo che definisce i giochi di ruolo in cui persone reali collegate su internet giocano contemporaneamente. L’utente si iscrive al mondo fantasy virtuale, condiviso con altri milioni di utenti, e ingaggia una battaglia contro draghi, orchi, elfi, e altre creature mostruose controllate da computer o da altri utenti. Second Life è invece il mondo virtuale per eccellenza, un universo parallelo creato dalla società Linden Lab, fondata nel 1999 a San Francisco dal quarantacinquenne Philip Rosedale. L’utente si iscrive e crea il suo avatar, che diventa così il protagonista della sua vita virtuale, che può essere simile o addirittura corrispondere a quella reale, oppure del tutto diversa. Su Second Life si fanno affari, si socializza, si intrattengono relazioni. Oggi World of Warcraft continua a essere uno dei siti più cliccati della rete, mentre Second life, che era diventato un fenomeno con un giro d’affari da 64 milioni di dollari nel 2006, oggi è frequentato “solamente” da un milione di utenti attivi.
Nel dicembre scorso Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia convertito al dogma della libera informazione e che dal 2013 rivela al mondo i “programmi di intercettazione di massa” del governo, spiegò all’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald come l’intelligence inglese e quella americana nel 2008 avessero iniziato a introdursi nel mondo dei giochi online, e delle realtà virtuali in genere, per raccogliere comunicazioni tra avatar e possibili informazioni utili all’antiterrorismo. Il timore dei dipartimenti d’intelligence era che gruppi terroristici o criminali potessero utilizzare i social game per scambiarsi informazioni segretamente, trasferire denaro o addirittura organizzare azioni pericolose per la sicurezza nazionale. Per esempio è noto che Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, in Norvegia, che il 22 luglio del 2011 uccise 77 persone a sangue freddo, trascorse almeno un anno tra il 2006 e il 2007 giocando giorno e notte a World of Warcraft. Se il programma di sorveglianza governativo fosse stato già attivo, sarebbe stato probabilmente un ottimo candidato.
In un’inchiesta pubblicata a dicembre sul New York Times, Mark Mazzetti e Justin Elliot scrivono che, secondo i documenti mostrati da Snowden, nel 2008 gli agenti segreti si infiltrarono non solo tra gli utenti di World of Warcraft e Second Life, ma anche nei giochi online per console, come l’Xbox di Microsoft. Secondo le indiscrezioni di Snowden, gli agenti usavano il mondo virtuale non solo per raccogliere informazioni, ma studiavano gli utenti – un campionario molto eterogeneo: nel 2008 gli utenti di World of Warcraft erano 10 milioni – in vista di possibili reclutamenti.
Negli ultimi sei anni non si registrano grandi successi delle operazioni segrete nei giochi online tranne un episodio: grazie al monitoraggio di Second Life, infatti, il Gchq, l’agenzia di servizi segreti britannici per le telecomunicazioni, con l’“operazione Galizia” fermò un’organizzazione criminale che trafficava dati di carte di credito attraverso gli avatar. Del resto nel 2007 il Gchq era già molto attento ai giochi online. Nello stesso periodo lanciò una campagna di reclutamento attraverso annunci pubblicitari nei giochi online più utilizzati dai giovani inglesi, come Need for Speed e Splinter Cell, figlio dei romanzi di Tom Clancy, il cui nome fin dalla progettazione era tutto un destino di auscultazione: Third Echelon, come il grande sistema globale di intercettazione telefonica. Sempre nel 2007, secondo nuove rivelazioni di Snowden risalenti a qualche giorno fa, l’Nsa e il Gchq cominciarono a lavorare anche a un sistema per registrare informazioni utili dalle app, le applicazioni per gli smartphone. Con il passare degli anni e la diffusione globale degli smartphone, lo studio sui dati rivelati dalle applicazioni – quelle per giocare sono tra le più scaricate – sarebbe diventato sistematico. Per esempio su Angry Birds, il giochino inventato nel 2009 dalla società finlandese Rovio. Quando qualcuno lancia la sua applicazione per giocare, le agenzie di intelligence sono in grado di intercettare numerosi dati come la posizione dell’utente, la sua età e il suo sesso.
Steven Aftergood è un ricercatore della Fas, Federation of american scientist. A gennaio è riuscito a ottenere, grazie al Freedom of Information Act (Foia) una copia parziale del “Report finale sui mondi virtuali e sulle loro implicazioni”, preparato per il coordinamento dell’Intelligence americana da vari centri studi, governativi e non. Nelle 143 pagine del dossier, datato luglio 2008, si parla soprattutto di Second Life e World of Warcraft, ma non solo. I fenomeni che si sviluppano sui giochi online, si legge nel dossier, possono essere “effimeri, come le tendenze della moda, del convenzionalismo, del gergo o dell’intrattenimento. Ma possono essere anche più significativi, come i fenomeni religiosi, ideologici, sessuali, o filosofici. Dato che i mondi virtuali comunicano idee ed emozioni così bene, possono essere un potente metodo di diffusione di un’ideologia”. I ricercatori della Difesa americana analizzano quindi l’aspetto più complicato dei giochi di interazione sociale in tre dimensioni, ovvero la costruzione dell’avatar, il proprio io virtuale. “Anima è la parola latina che viene dal greco ‘psiche’, ovvero l’individuo. ‘Maya’, nella religione indu, è il dio che crea e governa la dualità del mondo spirituale con quello fisico”. Unendo questi due concetti si arriva al termine “anamaya” per descrivere l’anima digitale. “L’anamaya rappresenta la base della personalità, della moralità, dei valori e delle credenze che l’utente impone all’avatar che crea di se stesso. E’ il proprio essere, la propria presenza nelle attività virtuali”. Nel dossier si citano alcune ricerche secondo le quali, nelle interazioni tra avatar, molte regole sociali della vita reale vengono “esportate” anche in quella virtuale, ma “il mondo virtuale crea un’opportunità per avere un ruolo attivo e vivere le nostre fantasie. Alcuni utenti potrebbero vivere esperienze che non farebbero mai nella vita reale perché percepite come illegali (per esempio uccidere qualcuno) o immorali (per esempio la pornografia). Gli utenti dei giochi virtuali potrebbero percepire quello del gioco come un luogo sicuro, anonimo, dove provare a essere un’altra persona e provare esperienze diverse”. E’ qui che entra in gioco la crucialità dello studio dei gruppi di avatar e delle interazioni sociali: “Un utente creò per un esperimento su Second life un gruppo, chiamandolo ‘Second life liberation army’. Presto si accorse che riusciva a raggiungere velocemente non solo chi già era militante nella realtà”, ma anche chi avrebbe voluto e non ne aveva il coraggio.
“Le agenzie di intelligence in questo periodo stanno cercando di sviluppare nuove fonti e nuovi metodi per ottenere informazioni”, dice al Foglio Aftergood, autore tra l’altro del blog Secrecy news, “e le rivelazioni di Snowden potrebbero aver accelerato questo processo. In molti casi l’uso di internet è inevitabile per l’intelligence. Ma in alcuni casi specifici ci sarà di sicuro un ritorno a metodi più sicuri. Del resto anche Bin Laden è stato trovato grazie al suo corriere”. La raccolta di informazioni attraverso i siti più utilizzati dagli utenti – che sono quelli di giochi online e quelli porno – è indispensabile, certo, ma secondo il rapporto dell’Odni “non ci sono prove che i gruppi islamisti e jihadisti abbiano cominciato a sfruttare le opportunità offerte dai mondi virtuali”. Eppure qualche anno fa lo psichiatra marocchino Abu Hafiza, uno dei capi di al Qaida, incentivò l’uso dei sistemi informatici perché “a volte più potenti delle armi stesse”. E sono celebri gli attacchi informatici del Syrian electronic army, un gruppo di hacker fedele al presidente siriano Bashar el Assad, che negli ultimi anni ha violato varie piattaforme di social network e siti d’informazione, compreso quello del New York Times. All’inizio di questo mese ha attaccato l’account di Twitter di Skype lanciando messaggi contro la sorveglianza dell’Nsa. Nel 2007 Hezbollah ha prodotto il videogame “Special Force 2: Tale of the Truthful Pledge”, basato sulla guerra libanese del 2006 contro Israele. Insomma quello attivato sette anni fa dall’Odni, il “programma Reynard” – il nome è preso da quello della volpe furba dell’opera folcloristica medievale “Romanzo di Renart” – non era poi così inutile. Si trattava in pratica “di mettersi in un angolo dello spazio virtuale e osservare i comportamenti degli utenti”, spiegava all’epoca dalle colonne del blog Virtually Blind Benjamin Duranske, avvocato della Silicon Valley: “Serviva a raccogliere dati da cui poter tracciare dei profili standard” e poi, in futuro, segnalare eventuali deviazioni.
Una delle conseguenze più plausibili della diffusione della realtà virtuale, descritta così come fanno i funzionari della Difesa americana, è l’immortalità virtuale. Un tema che i gestori dei social network hanno risolto. Per esempio che cosa succede al proprio profilo di Facebook quando moriamo? E’ possibile elaborare un lutto se la propria esistenza virtuale continua a vivere? Il giovane Mark Zuckerberg, ceo di Facebook, ha dato una risposta creando una pagina dedicata ai famigliari, che in caso di morte di un parente possono inviare un’autocertificazione e cancellare il profilo, oppure renderlo una pagina commemorativa. Ma che succede alla sua vita virtuale quando muore il misterioso, latitante leader carismatico di un’organizzazione criminale, oppure il padre di un gruppo terroristico con proseliti in ogni angolo del globo? Cosa succede quando muore Bin Laden? E’ la domanda che si sono fatti gli autori del report dell’Odni, arrivando tre anni prima della morte di Bin Laden a una conclusione. “Perché l’immortalità virtuale dovrebbe preoccuparci”, scrivono, “se i jihadisti creassero un dettagliato avatar di Osama bin Laden e usassero le numerose registrazioni della sua voce per animare un avatar molto vicino a quello reale, che possa essere in grado di predicare, convertire, reclutare, e diffondere messaggi ai media. L’avatar di Bin Laden potrebbe diffondere minacce e proclamare nuove fatwa per centinaia di anni a venire, la somiglianza al suo aspetto reale potrebbe essere credibile e creare nuovi modi per renderlo nuovo e moderno. In effetti, chiunque potrebbe diventare un immortale virtuale e vivere nel cyberspazio per sempre”.
Nel rapporto dell’intelligence americana si citano poi due paesi asiatici che hanno prestato particolare attenzione al mondo virtuale in due modalità completamente opposte, la Cina e la Corea del sud. La politica autoritaria di Pechino ha riconosciuto subito il pericolo proveniente dai giochi di ruolo online e dall’interazione tra utenti di internet. E’ per questo che le limitazioni sulla libertà d’espressione sono “esportate” anche online, e il governo incentiva (ovvero obbliga) l’utilizzo di software domestici che possono essere facilmente messi sotto controllo.
La Corea del sud, sempre secondo l’analisi dell’Odni, è leader nel campo delle tecnologie, e il suo modello di sviluppo e di adattamento ai cambiamenti del mondo virtuale “potrebbe essere preso a modello anche dagli Stati Uniti”. Il governo di Seul ha infatti promosso lo sviluppo dell’industria virtuale attraverso un ampio sostegno alla creazione di infrastrutture di telecomunicazioni all’avanguardia (la diffusione della banda larga, per esempio) che hanno consentito la creazione “di un libero mercato con valori democratici”. Allo stesso tempo però, la Corea del sud usa metodi di spionaggio considerati antiquati, e restano gli uomini la principale risorsa per le informazioni. Secondo il South China Morning Post per avere notizie sul regime di Pyongyang, per esempio, dove l’uso di internet e dei telefoni cellulari è molto limitato, Seul utilizza ancora il telegrafo o il metodo radiofonico a messaggi cifrati, entrambi diffusi durante la Seconda guerra mondiale. Secondo alcune fonti, negli ultimi tempi si sta verificando un ritorno dei servizi d’intelligence allo spionaggio vecchia maniera. Le rivelazioni di Snowden e la trasparenza degli apparati di sicurezza hanno fatto sì che le comunicazioni considerate a rischio difficilmente avvengano su dispositivi intercettabili, e i servizi segreti stanno puntando oggi sul reclutamento di informatori “popolari”.
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