Competitività

Enrico Cisnetto

I nodi sono venuti al pettine. Dopo aver trascurato per ben due decenni i problemi di fondo del nostro sistema produttivo ed esserci privati di una qualunque politica industriale – che non significa intermediare incentivi o imporre dirigismi, ma disegnare modelli di sviluppo e costruire le pre-condizioni del fare impresa – ora i casi Electrolux e Fiat ci dicono che siamo al dunque.

    I nodi sono venuti al pettine. Dopo aver trascurato per ben due decenni i problemi di fondo del nostro sistema produttivo ed esserci privati di una qualunque politica industriale – che non significa intermediare incentivi o imporre dirigismi, ma disegnare modelli di sviluppo e costruire le pre-condizioni del fare impresa – ora i casi Electrolux e Fiat ci dicono che siamo al dunque.
    In questi vent’anni la Polonia ha imparato a produrre lavatrici uguali alle nostre, mentre nello stesso arco di tempo gli elettrodomestici made in Italy sono rimasti uguali, solo che costano quattro volte di più. Lamentarsi ora è patetico, soprattutto se si piange per le ragioni sbagliate. Il vero problema italiano è la competitività, certificato dalla perdita di sette posizioni nell’ultima classifica Ocse. A determinarlo c’è anche il costo del lavoro, ma non è la sola causa e neppure la principale. Se anche a Porcia venissero adottate le riduzioni salariali richieste dall’Electrolux, portando il costo orario del lavoro da 24 a 21 euro, secondo il piano redatto per Confindustria Pordenone da tre “insospettabili” come Illy, Treu e Cipolletta – un taglio dell’8 per cento del salario netto e del 20 per cento della retribuzione complessiva, ma non il dimezzamento dello stipendio di cui i “soliti cretini” hanno parlato – avremmo guadagnato tempo, e non è poca cosa, ma di certo non avremmo risolto il problema. Maggiore flessibilità ed economicità del lavoro, da sole, nella nuova divisione internazionale del lavoro imposta dal combinato disposto di globalizzazione e rivoluzione tecnologica, non creano maggiore crescita e occupazione. Salvano il presente, questo sì, ma non illuminano il futuro, perché non sarà mai possibile competere con i 7 euro orari della Polonia (e non è neppure la realtà meno costosa). E se anche lo fosse, nel mondo globalizzato ci sarà sempre un paese con il costo del lavoro più basso che in fretta, copiando, impara a mettersi al pari sul fronte della qualità del prodotto.

    A meno che, il prodotto non contenga tanta qualità e tale innovazione da rendere impossibile per i paesi low cost colmare quel gap. E che lo scarto sul fronte della qualità del prodotto sia più alto, in termini economici, di quello sul fronte del costo per produrlo. E che sia così lo dimostra il fatto che chi cresce, fra i paesi “maturi”, non gioca al ribasso sul costo del lavoro ma, viceversa, gioca al rialzo sul fronte dell’innovazione. In Germania il costo del lavoro nel settore manifatturiero è di quasi 34 dollari l’ora, eppure l’industria brilla e la Volkswagen ogni anno distribuisce bonus da qualche migliaia di euro ai suoi dipendenti. In Irlanda è superiore ai 40 euro l’ora, ma la produttività è cresciuta del 12 per cento in 5 anni (la Ue del 2,9 per cento, l’Italia quasi zero). E anche da noi se nel 2013 tutti i rinnovi contrattuali di categoria hanno previsto aumenti salariali superiori ai 100 euro, è perché sono state le imprese esportatrici, più competitive, a spingere affinché non ci fossero problemi sul fronte delle relazioni industriali. Dunque, chiedere oggi sacrifici ai lavoratori – la qual cosa può anche essere sotto forma di aumento di ore lavorate a parità di salario – va bene solo nella misura in cui questi interventi emergenziali servono a evitare il crollo mentre si sta già attuando la riconversione degli impianti a favore di prodotti con più alto valore aggiunto. Un po’ quello che Marchionne “dice” di voler fare, dopo aver ristrutturato prima con le battaglie (non solo referendarie) sulla produttività e poi con il matrimonio Fiat-Chrysler: creare in Italia un polo automobilistico del lusso Maserati-Alfa Romeo. Di fronte a un Lingotto che nel 2004 era in ginocchio, il manager in cachemire ha prima innovato i processi e ora mira a innovare i prodotti. Bene, sempre che tutto questo corrisponda alle reali intenzioni, e non sia – come ho più volte dubitato – un diversivo per preparare la fuga (definitiva) dall’Italia verso Detroit. Perché se così fosse, l’Italia avrebbe perso per sempre un comparto che era stato decretato maturo e che invece ha dimostrato di avere ancora grandi potenzialità di innovazione.

    L’Italia, paese di sola trasformazione e privo di materie prime, non può abbandonare la manifattura. Ma per farlo è necessario cambiare paradigma. La coreana Samsung, mentre se la batte con la Apple sulle telefonia, ha annunciato il lancio di una nuova serie di elettrodomestici “intelligenti”. E non lo fa abbassando i salari, ma con prodotti nuovi e innovativi. Oggi i settori ad alto valore aggiunto, sia esso tecnologico o “made in Italy” classico, verso i quali dirigersi sono il design, il risparmio energetico, la domotica, le nano e bio tecnologie. Prodotti più sofisticati, a maggiore intensità di conoscenza rispetto a una lavatrice fabbricata a Cracovia. Però, servono investimenti in conoscenza: prima nei processi formativi scolastici e universitari, poi nelle aziende con l’all-life-long. Più della metà del pil statunitense viene da prodotti immateriali, la Corea del sud ha bruciato le tappe dell’industrializzazione. Noi dobbiamo fare altrettanto.