Cos'era l'industria che ora emigra

Sergio Soave

La costituzione formale della Fiat Chrysler Automobiles rappresenta l’approdo di una robusta operazione industriale e finanziaria che, per chiamarla col suo nome, è stata una manovra di salvataggio. Non lo nasconde, peraltro, il giovane presidente della Fiat, John Elkann che conferma con candore al quotidiano di famiglia che “una squadra che ormai lottava solo per la salvezza è risalita nella parte alta della classifica”.

Tavecchio Tre cose da fare per Fiat-Chrysler

    La costituzione formale della Fiat Chrysler Automobiles rappresenta l’approdo di una robusta operazione industriale e finanziaria che, per chiamarla col suo nome, è stata una manovra di salvataggio. Non lo nasconde, peraltro, il giovane presidente della Fiat, John Elkann che conferma con candore al quotidiano di famiglia che “una squadra che ormai lottava solo per la salvezza è risalita nella parte alta della classifica”. La metafora calcistica, per una volta, è calzante: dieci anni fa tutti gli osservatori internazionali mettevano la Fiat fuori dall’elenco della dozzina di grandi imprese automobilistiche destinate a sopravvivere alla selezione di un mercato sempre più competitivo. Oggi la FCA è al sesto posto tra i produttori, in grado di competere.

    A questo approdo (naturalmente provvisorio ma comunque assai significativo) la Fiat è arrivata con un sostanziale capovolgimento della sua filosofia aziendale tradizionale, quella, per intenderci, che Gianni Agnelli compendiava nella formula “quel che è bene per la Fiat è bene per l’Italia”.

    In un passato non troppo lontano la Fiat viveva (non sempre prosperava, anzi) sostanzialmente in simbiosi con lo stato imprenditore, che le aveva graziosamente ceduto l’Alfa Romeo per evitare l’ingresso in Italia della concorrenza della Ford, col sistema finanziario governato da Enrico Cuccia nel cui salotto buono gli ospiti torinesi erano trattati con immenso rispetto (condito con un pizzico di condiscendenza, soprattutto per le incursioni in territori, dalle assicurazioni ai supermercati, estranei alla cultura e alla capacità imprenditoriale della Fiat), col sistema mediatico nel quale progressivamente la Fiat ha consolidato un ruolo centrale che conserva tuttora, con le quote protezioniste antigiapponesi.
    Qualche decennio fa l’architrave su cui si era costruito l’edificio del compromesso politico era stato l’intesa interconfederale degli anni Settanta tra Gianni Agnelli e Luciano Lama sulla scala mobile e altro, pesantemente negativa per le possibilità di crescita economica, soprattutto del Mezzogiorno privato dei differenziali salariali, e di evoluzione professionale, schiacciata dall’egualitarismo degli incrementi salariali eguali per tutti, ma costitutiva di una sorta di pace sociale sulla quale fu possibile costruire il consociativismo tra Dc e Pci.

    La fine di questa stagione, peraltro, fu segnata anch’essa dalla reazione polemica dei quadri intermedi della Fiat a una fase particolarmente aspra della lotta in fabbrica, che segnò l’inizio del declino del potere sindacale senza peraltro fornire nuove basi solide a una crescita imprenditoriale nei settori tradizionali (che invece si realizzò parzialmente in quelli “nuovi” della moda, del design, in generale della produzione più legata a impulsi estetici).

    La Fiat simbiotica con uno stato che produceva soprattutto debiti perdeva rilievo internazionale e assumeva i vizi di un sistema protetto, che la portarono più volte sull’orlo del fallimento, evitato spesso con operazioni finanziarie funamboliche, come quella del “convertendo”, cioè di una cessione virtuale della proprietà della società alle banche creditrici, o la sceneggiata della penale pagata dalla General Motors per evitare di assumere il controllo della Fiat, considerata una causa persa e pericolosa.
    In questa dimensione provinciale (e nelle affannose manovre internazionali di piccolo cabotaggio che non erano mancate) non c’era lo spazio per una azione di salvataggio di grande respiro, e il merito di Sergio Marchionne è stato quello di trovare a Detroit il bandolo della matassa ingarbugliata in Italia, dove, peraltro, le relazioni sindacali e quelle finanziarie diventavano sempre più difficili per la dissoluzione dei centri decisionali politici ed economici tradizionali. La Fiom scesa sul sentiero di guerra senza le reti di controllo tradizionali del Pci e della Cgil, i governi che non si sono dimostrati in grado neppure di definire le norme della   rappresentanza nella contrattazione, mentre oscillavano tra inutili sostegni come le rottamazioni e improvvisi irrigidimenti, rappresentano i caratteri più evidenti di un panorama del tutto nuovo, in cui l’antica simbiosi si era capovolta in un tendenziale e paradossale rigetto da parte dell’establishment dell’azienda che ne era stato per decenni la spina dorsale. L’uscita della Fiat da Confindustria, un fatto che solo dieci anni prima sarebbe apparso impensabile, ha suggellato questa situazione nuova, mentre l’appoggio del fondo pensione dei sindacati americani al salvataggio Chrysler ha segnato la svolta che ha caratterizzato il colpo d’ala di Marchionne e il salvataggio della Fiat.

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