Così il mio Abruzzo vispo e bigotto è diventato un troiaio a cielo aperto

Stefano Di Michele

Stava l’erotismo all’Abruzzo come la musica militare alla musica, le scrippelle ’mbusse alla cucina macrobiotica, la mietitura alla beauty farm. Non che gli atti impuri non trovassero compimento tra stalle e pagliai, o che il desiderio della donna (dell’uomo) altrui non affollasse il resoconto dei confessionali. Ma tutto stava sotto traccia, passava in lontananza come i pecorai dannunziani (infatti il Vate da quelle parti di ovini si occupava, mica di carampane da Vittoriale) in settembrina transumanza.

    Stava l’erotismo all’Abruzzo come la musica militare alla musica, le scrippelle ’mbusse alla cucina macrobiotica, la mietitura alla beauty farm. Non che gli atti impuri non trovassero compimento tra stalle e pagliai, o che il desiderio della donna (dell’uomo) altrui non affollasse il resoconto dei confessionali. Ma tutto stava sotto traccia, passava in lontananza come i pecorai dannunziani (infatti il Vate da quelle parti di ovini si occupava, mica di carampane da Vittoriale) in settembrina transumanza. Avevano, gli abruzzesi, senso pratico e senso del ridicolo, forti della secolare convinzione che “chi cac’ sott’ a la nev’ prest’ si svela” – che se uno va a cagare in mezzo alla neve si fa scoprire: vuoi per l’immacolato biancore insozzato, vuoi per il disgelo in agguato che ciò che oggi sprofonda domani sempre riporta alla luce. Mai notizie (mai degne di nota) su contaminazione tra tette e istituzioni erano finora giunte da lì. “L’Abruzzo è regione tranquilla”, scriveva Guido Piovene nel suo fenomenale “Viaggio in Italia”. Né il teramano poteva essere scambiato con la provincia veneta di Pietro Germi, quella di “Signore e signori”, né sul lungomare di Vasto, oltre al rassicurante profilo di Remo Gaspari sotto l’ombrellone, alcuna Ninì Tirabusciò una mossa inventò. La sua buona misurata ipocrisia, con distratto e tollerante bigottismo l’Abruzzo difendeva – sempre d’altre priorità preso, ché “l’amore è bella cosa, ma la fame è brutta bestia”. Terra lontana, dove le cose giungono, non terra da dove le cose partono (greggi dannunziane a parte), e pure Boccaccio dell’Abruzzo parla, ma solo per dire “gli è più lontano che Abruzzi” – orizzonte di sola lontananza.

    Di se stesso l’Abruzzo non ha mai fatto letteratura. Figurarsi cronaca. Cronaca rosa, poi. A cronaca giudiziaria infine mischiata. E anzi, e meglio, più che mettere le braghe alle tentazioni, mette le mani in avanti rispetto alle conseguenze, e perciò ha tra le sue più felici istituzioni l’annuale festa dei cornuti a San Valentino in Abruzzo Citeriore – “Gioiamo del fatto di avere le corna!”, con simbolo fallico in radice d’ulivo portato in gloriosa processione, e pare che fu faccenda originata dalla sorella di san Martino che, vispa più che casta, fece fesso il sant’uomo e si concesse qualche deplorevole spasso.

    Ora, si capisce: se nemmeno san Martino riusciva a tenere a bada la vivace sorellina, ancor meno tale gravoso contenimento di voglie e tentazioni si può chiedere a un mortale assessore. Così le cronache che nelle ultime settimane varcano il Gran Sasso sono storie persino migliori di certe pochade di Feydeau (il suo “Albergo del libero scambio” sembra perfetta metafora; “La pulce nell’orecchio” meglio ancora – pur se adesso la pulce ha raggiunto le dimensioni di un fenicottero), gente che va e viene, hotel stellati e ricevute sfuggite, contratti per prestazioni sessuali recuperati nei cestini della carta straccia, moglie e amante in procura nello stesso giorno – e tutti, chi di qua chi di là, a chieder “scusa alla mia famiglia”, questa poi, mai sentita… Giro vorticoso di “amanti aviotrasportate” – come da definizione di Travaglio sul Fatto. Il quale Fatto, poi, il Corriere rimprovera per aver intervistato il governatore Chiodi sulla sua notte brava in albergo, vista Pantheon, con fanciulla (“non bisogna aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”, dice: ma chi è, Tex Willer? Manitù?), senza citare il Fatto stesso che la notizia ha dato. E perciò, ecco che a scorno del Corriere ieri trionfalmente il Fatto intervistava la signora (definita “la donna della camera 114”: pare uno sceneggiato anni Settanta tratto da un giallo di Francis Durbridge), che conferma e precisa: “Ho dormito con Chiodi, ma l’adulterio non è reato”, e altro ci mancherebbe.

    Un abruzzese di gran classe e grande genio come Ennio Flaiano spiegava che “tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora ’nu cristiane?), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie: e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come i miei, anzi nei loro difetti i miei”. Si capisce meglio, allora, che uno stravolgimento è avvenuto, se adesso il politico abruzzese in trasferta più che la figura da statista marsicano evoca quella di Totò e Peppino alle prese con la dolce vita: “Moët & Chandon? Mo’ esce Antonio. Triple sec, no, la trippa secca no. Sa che le dico? Mi porti due whiskey e tre pernacchie”.

    Deve essere il fantasma di Lucrezia Borgia, che da quelle parti passò. Certe tradizioni dello “ius primae noctis” del barone Corvo de Corvis. Il fallo d’ulivo che continua a girare di mano in mano, da corna a corna, con scazzo e sollazzo. Qualcosa che prudeva (oltre che corna), ma che stava composto e sfumato, tra dimenticanza e il ricoscere gli altrui difetti come propri. Poi dal “gran rifiuto”, a evocazione del conterraneo Celestino V, si è passati al “grande assenso”. Magari a cinque stelle.