Frontiere e tormenti dei cattolici in America
Se Benedetto XVI è “l’evangelista della libertà”, il Paul Ryan che lo introduce in questa raccolta di discorsi a tema politico dev’essere almeno un alfiere della laicità positiva, terreno americano sul quale può crescere l’erba balsamica di una religiosità rilevante nello spazio pubblico, capace di articolare un pensiero originale ma intelligibile al mondo e, se necessario, di opporsi per porsi.
Leggi Gli evangelisti della laicità di Paul Ryan
Se Benedetto XVI è “l’evangelista della libertà”, il Paul Ryan che lo introduce in questa raccolta di discorsi a tema politico dev’essere almeno un alfiere della laicità positiva, terreno americano sul quale può crescere l’erba balsamica di una religiosità rilevante nello spazio pubblico, capace di articolare un pensiero originale ma intelligibile al mondo e, se necessario, di opporsi per porsi. In quello stesso terreno ci può crescere anche la zizzania, naturalmente, ma sulle sponde in cui, in fin dei conti, i Padri fondatori erano figli dei Padri pellegrini e quella che dominava l’immaginario dei coloni era la visione della città sulla collina, non c’era traccia della laicità chiodata della Francia giacobina, soltanto un firewall che separava l’ambito dello stato da quello della chiesa, tracciando il posto dell’uomo e quello di Dio nel mondo. L’idea era che il velo di separazione fosse semitrasparente, in modo che alla luce divina fosse almeno concesso di rifrangersi nel terreno delle cose umane.
Ryan ripercorre quella strada della “sana laicità” che è scolpita nel Primo emendamento della Costituzione, garante di quella separazione fra stato e chiesa che non è da intendersi come imposizione dell’uno per neutralizzare l’altra. Il cardinale Camillo Ruini ha insistito spesso sulla natura di una laicità radicalmente opposta a quella francese: “Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali è essenziale non essere chiese dello stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti. In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra chiesa e stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo stato deve lasciare libero. Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da Papa Gelasio I. Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente “ostile” alla religione e tendente a subordinare le chiese allo stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito”.
In questo senso, il “dialogo” fra Ryan e Benedetto XVI non è un discettare del passato, ma illumina la presenza della chiesa americana di oggi e di domani nell’ambito della cosa pubblica. La chiesa della grande battaglia contro la violazione della coscienza inscritta nelle linee guida della riforma sanitaria. La chiesa delle suore del Colorado che portano la questione della libertà religiosa fino al tavolo della Corte suprema. La chiesa che scende in piazza nell’anniversario della Roe v. Wade, la sentenza che ha legalizzato l’aborto, per tenere viva una “culture war” che a livello federale è quaestio soluta ma nell’ambito dell’autorità statale è ancora vibrante. La chiesa del muscolare cardinale Timothy Dolan, “conservatore aperto al mondo”, e del cardinale Raymond Burke, che proprio mentre Papa Francesco diceva alla Civiltà Cattolica che la “pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza” spiegava a un’assai meno nota rivista cattolica del Minnesota che “l’agenda omosessuale si sta realizzando con allarmante rapidità”, richiamando i fedeli alla lotta contro un “inganno” che non può che provenire da Satana. Burke è stato poi rimosso dalla Congregazione dei vescovi e al suo posto è stato elevato un altro americano, il cardinale di Washington Donald Wuerl, assai lontano dalla sensibilità tradizionalista dell’ex arcivescovo di St. Louis.
Quella tratteggiata da Ryan con il linguaggio non-clericale di un rappresentante del popolo americano è insomma la chiesa che ha costruito la sua presenza sui cardini dei valori non negoziabili. Nel gennaio del 2012 Benedetto XVI aveva detto ai vescovi americani: “E’ fondamentale che l’intera comunità cattolica negli Stati Uniti riesca a comprendere le gravi minacce alla testimonianza morale pubblica della chiesa che presenta un secolarismo radicale, che trova sempre più espressione nelle sfere politiche e culturali. La gravità di tali minacce deve essere compresa con chiarezza a ogni livello della vita ecclesiale. Particolarmente preoccupanti sono certi tentativi fatti per limitare la libertà più apprezzata in America, la libertà di religione. Molti di voi hanno sottolineato che sono stati compiuti sforzi concertati per negare il diritto di obiezione di coscienza degli individui e delle istituzioni cattolici per quanto riguarda la cooperazione a pratiche intrinsecamente cattive. Altri mi hanno parlato di una preoccupante tendenza a ridurre la libertà di religione a una mera libertà di culto, senza garanzie per il rispetto della libertà di coscienza. Qui, ancora una volta, vediamo la necessità di un laicato cattolico impegnato, articolato e ben preparato, dotato di un senso critico forte dinanzi alla cultura dominante e del coraggio di contrastare un secolarismo riduttivo che vorrebbe delegittimare la partecipazione della chiesa al dibattito pubblico sulle questioni che determineranno la futura società americana”.
La delegittimazione della chiesa in America, la sua sostanziale estromissione dal dibattito pubblico era preoccupazione sovrana del Papa, affiancata dalla coscienza di una perniciosa riduzione del fenomeno religioso al puro culto, privatizzazione estrema che giunge alle soglie dell’intimismo. Siamo all’altro polo della sensibilità cattolica americana. Quella della separazione “assoluta” fra stato e chiesa propalata da John Fitzgerald Kennedy, che non era il candidato cattolico alla presidenza ma il “candidato democratico che incidentalmente è anche cattolico”, dunque la qualifica religiosa era da intendersi come spilletta appuntata sul bavero dell’io interiore, non come fonte di giudizi pubblicamente rilevanti. E’ questa anima della chiesa che ha visto nell’avanzata potente di un modo di vita ultrasecolarizzato e nella concomitante salita al soglio di Francesco, gesuita maestro del discernimento, l’occasione imperdibile per martellare la chiesa militante con la clava docile del “chi sono io per giudicare?” e con il declassamento dei valori non negoziabili a “ossessioni”. Siamo molto oltre la soglia della strumentalizzazione delle parole papali, certo, ma il punto è che per questa corrente “liberal” la declamata laicità americana ha preso a configurarsi essenzialmente come assenza. Assenza di vincoli e lacci non negoziabili, oscuramento del velo semitrasparente attraverso cui filtrava la luce, spiritualità da esperire nello spazio intimo.
Nella pletora di copertine encomiastiche che i magazine secolarizzati hanno dedicato a Francesco, emerge per contrasto quella di New Republic, che preventivamente aveva messo in guardia dai malriposti entusiasmi riformatori dei cattolici à la Kennedy. Si sosteneva, in poche parole, che da Francesco ci si può aspettare amorevole comprensione, immersioni nella periferia, bacchettate alla trickle-down economics e magari un repulisti della curia romana, ma per quanto riguarda la dottrina nulla di nulla. Niente preti donne, aperture al matrimonio omosessuale né i ripensamenti sostanziali della famiglia che su queste pagine sono state rubricate sotto il titolo di Concilio Vaticano III. L’autore dell’articolo, Damon Linker, recentemente ha scritto sul settimanale Week un articolo provocatorio suscitato da un dialogo radiofonico con Trisha, un’ascoltatrice cattolica, tendenza liberal. Questa signora del Kentucky affermava tranquillamente che “la dottrina per i cattolici, oggi, non è nemmeno una questione. Ai cattolici non interessa la dottrina, è irrilevante, è un non-problema per i cattolici”. Non che Trisha rappresenti il mainstream cattolico americano, ma quell’attaccamento sentimentale, suggerito dalla tradizione, a un cattolicesimo svuotato da ogni contenuto dottrinale – così svuotato che non invoca nemmeno un’apertura al mondo, perché l’idea stessa di dottrina è superata – può essere letto come l’estrema conseguenza della privatizzazione della fede. La laicità dell’assenza non solo non è ostile al culto ma lo incoraggia, valorizzandone la spiritualità, a condizione che non sporchi lo spazio vuoto delle scelte pubblicamente rilevanti.
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