Dopo i negoziati di Ginevra

Sulla Siria Kerry non si fida più di Obama. Pure al Baghdadi non sta bene

Daniele Raineri

“Barack Obama farebbe sembrare anche Neville Chamberlain come il generale Custer”, diceva ieri la battuta di un siriano espatriato su Twitter. Farebbe sembrare l’appeaser più famoso della storia come il generale tradito dalla troppa foga. Che però sia anche il segretario di stato John Kerry ad ammettere – in un incontro off the record con quindici senatori – di avere perso fiducia nella politica estera della Casa Bianca sulla Siria è un fatto inedito persino per questi tre anni di guerra trascinata nell’attesa di un momento risolutore che non arriva mai. Comincia così, con Kerry che ammette il fallimento della linea politica che lui stesso rappresenta, l’èra del Post conferenza di pace di Ginevra.

    “Barack Obama farebbe sembrare anche Neville Chamberlain come il generale Custer”, diceva ieri la battuta di un siriano espatriato su Twitter. Farebbe sembrare l’appeaser più famoso della storia come il generale tradito dalla troppa foga. Che però sia anche il segretario di stato John Kerry ad ammettere – in un incontro off the record con quindici senatori – di avere perso fiducia nella politica estera della Casa Bianca sulla Siria è un fatto inedito persino per questi tre anni di guerra trascinata nell’attesa di un momento risolutore che non arriva mai. Comincia così, con Kerry che ammette il fallimento della linea politica che lui stesso rappresenta, l’èra del Post conferenza di pace di Ginevra.

    La strategia di Washington procedeva fino alla settimana scorsa su un doppio binario deciso a settembre 2013: la rimozione delle armi chimiche ancora controllate dal presidente Bashar el Assad e una grande conferenza di pace in Svizzera. Il primo binario non sta funzionando, per adesso soltanto il quattro per cento dell’arsenale chimico è uscito dalla Siria e il rais temporeggia perché vuole rinegoziare le condizioni (corrono voci per nulla provabili sul fatto che avrebbe ordinato di nascondere e non consegnare una parte delle armi, a dimostrazione se non altro di una crisi di fiducia). La Russia è intervenuta ieri garantendo che entro marzo le armi chimiche siriane saranno consegnate, ma questo scivolare di scadenze nel futuro non è convincente. Il secondo binario – il tavolo di pace a Ginevra – è andato anche peggio del previsto. Il New York Times sintetizza così il risultato: regime e opposizione non sono riusciti nemmeno a mettersi d’accordo su quando incontrarsi di nuovo (e intanto le bombe cadono). Del resto era difficile aspettarsi molto da un negoziato aperto da questa dichiarazione del ministro degli Esteri siriano Walid al Moallem all’opposizione: “Siete traditori al soldo degli israeliani”.

    Eppure gli americani avevano fatto di tutto per portare a Ginevra i delegati dell’opposizione. Si capisce il logorìo di Kerry, che infatti potrebbe essere sul punto di annunciare un cambio di strategia.
    Fallita o comunque in stallo Ginevra, la sola strada per costringere Assad a negoziare davvero è quella di ricominciare a sostenere e armare i ribelli, almeno nella loro componente moderata, secondo i governi nemici di Damasco riuniti in un’allenza informale che va dai paesi arabi del Golfo alla Turchia passando per Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Però prima vanno appoggiati anche nella loro lotta contro al Qaida, come ha detto Kerry ai senatori riuniti a porte chiuse. La chiave della guerra contro l’esercito governativo sta in questo passaggio precedente e necessario, lo sradicamento violento dei gruppi estremisti dal territorio liberato. Per questo l’Arabia Saudita ha appena annunciato una legge per punire con un periodo dai tre ai vent’anni di carcere chi combatte il jihad in Siria assieme a gruppi estremisti – la lista non c’è ancora, ma è probabile che i gruppi proibiti saranno soltanto due: lo Stato islamico e Jabhat al Nusra. E per questo la Turchia la settimana scorsa ha bombardato con l’artiglieria un convoglio di guerriglieri dello Stato islamico che si è fermato troppo vicino al confine.

    L’ira di Zawahiri
    Se Kerry è sconsolato, anche i gruppi considerati più estremi in Siria sono nel mezzo di un cambio di strategia. Dal Pakistan il comando centrale di al Qaida, guidato dall’egiziano Ayman al Zawahiri, ha appena dichiarato ufficialmente che lo Stato islamico in Iraq e Sham non ha nulla a che vedere con esso. Si tratta di due entità separate, con catene di comando differenti. La decisione è stata presa per la violenza esercitata dallo Stato islamico nella guerra contro i gruppi ribelli siriani, simile a quella riservata ai soldati americani in Iraq negli anni scorsi. Due giorni fa uno dei loro negoziatori si è presentato a trattare una tregua con i rivali del Fronte islamico ad al Ra’i, vicino al confine turco, ma era un’imboscata, indossava una cintura esplosiva e si è fatto esplodere in mezzo a loro.
    Il capo del gruppo, Abu Bakr al Baghdadi, andrà avanti anche senza l’endorsement di Ayman al Zawahiri, perché ha ormai raggiunto l’autonomia finanziaria dai tradizionali finanziatori privati del Golfo – grazie al controllo di pozzi di petrolio in Siria e a imprese illegali in Iraq. Ma è sotto pressione: domenica è stato circondato dalle forze irachene – che agivano grazie a soffiate dell’intelligence – a sud di Baghdad ed è stato ferito a una gamba, prima di riuscirsi a dileguare in direzione di Anbar, dove i suoi controllano parti di Fallujah e Ramadi.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)