Woody non può più infischiarsene

Annalena Benini

Finché la mostrificazione di Woody Allen avveniva su Twitter, a opera principalmente di Mia e Ronan Farrow, ex moglie e unico figlio biologico (forse) che lo odia e non lo vede da almeno vent’anni, Woody Allen stesso, dicono gli amici, era bravissimo a infischiarsene. Un po’ perché non sa che cosa sia Twitter (e non usa mai internet: le due figlie adottate con Soon-Yi lo prendono in giro per questo), un po’ perché ha sviluppato una corazza di indifferenza nei confronti dei pettegolezzi: non gli importa che cosa si dice di lui, e consiglia agli altri di fare altrettanto.

    Finché la mostrificazione di Woody Allen avveniva su Twitter, a opera principalmente di Mia e Ronan Farrow, ex moglie e unico figlio biologico (forse) che lo odia e non lo vede da almeno vent’anni, Woody Allen stesso, dicono gli amici, era bravissimo a infischiarsene. Un po’ perché non sa che cosa sia Twitter (e non usa mai internet: le due figlie adottate con Soon-Yi lo prendono in giro per questo), un po’ perché ha sviluppato una corazza di indifferenza nei confronti dei pettegolezzi: non gli importa che cosa si dice di lui, e consiglia agli altri di fare altrettanto. Il regista Robert B. Weide, autore di “Woody Allen: a documentary”, gli scrisse il giorno dopo i Golden Globes (durante la notte, dopo i tweet più che sarcastici di Mia e Ronan Farrow, si era scatenato di nuovo il dilemma: può un uomo orribile, uno squallido pedofilo, essere un grande artista, può ricevere premi alla carriera?), Weide gli scrisse per sapere come si sentisse, con la scusa di chiedergli consigli sul proprio orzaiolo all’occhio sinistro che, scherzandoci sopra e facendo gli scongiuri, poteva essere in realtà un tumore al cervello: “Sono d’accordo, probabilmente hai un tumore al cervello – gli rispose Woody, in tutta la sua ipocondria – dovresti sistemare i tuoi affari perché le cose possono muoversi piuttosto rapidamente. Avrai presto problemi con l’equilibrio, ma non andare nel panico, è normale”. E gli consigliò di non usare i giorni che gli restavano “agitandosi” riguardo a Mia Farrow (in realtà Robert B. Weide ha scritto una lunga testimonianza sul Daily Beast per difendere Woody Allen dalla definizione di pedofilo). Finché l’odio galleggiava in internet, e perfino nelle interviste a Vanity Fair, Woody Allen sapeva infischiarsene. Non risponde dal 1992, l’anno in cui quella famiglia andò in pezzi: lui si fidanzò con Soon-Yi e dopo pochi mesi Mia Farrow lo accusò di molestie sessuali nei confronti di Dylan, figlia adottiva di Mia, che allora aveva sette anni e verso la quale Woody Allen, a detta di psicologi e amici, aveva attenzioni eccessive, che escludevano gli altri fratelli. In quell’occasione lui chiese l’affidamento esclusivo dei figli, motivandolo con l’odio che Mia Farrow provava per lui e con i tentativi di plagio sui bambini, e perse (il nuovo figlio adottivo di Mia ebbe come secondo nome, per festeggiare la guerra vinta, quello del giudice della Corte suprema che respinse l’istanza di Allen). Il processo per molestie sessuali non ebbe seguito, secondo Allen perché non c’erano elementi, secondo Farrow perché non si voleva turbare ancora di più una bambina spaventata, già sottoposta a visite mediche e psicologiche, e ripresa dalla madre con la videocamera mentre raccontava, a sette anni, che Woody Allen la toccava e lei aveva paura. Una storia orribile, una grande famiglia infelice e una guerra che non è mai finita. Adesso la storia orribile è tornata sul New York Times (ma sul blog di Nicholas Kristof, e Allen non sa bene che cosa sia un blog), scritta da quella bambina di sette anni, vent’anni dopo, e quasi con le stesse parole di allora, ma con molte più certezze e con assoluto rancore non solo per la ferita subita, ma anche rancore verso il mondo che sorride, chiama genio Woody Allen, guarda i suoi film, lo candida all’Oscar (“Se fosse stato tuo figlio, Cate Blanchett? Louis C.K.? Alec Baldwin? Se fosse stato fatto a te, Emma Stone? Oppure a te, Scarlett Johansson?”.

    “Tu mi conoscevi quando ero piccola, Diane Keaton. Ti sei dimenticata di me?”). Nemmeno Woody Allen può più fingere di infischiarsene, o fare battute, come quando respingeva, vent’anni fa, l’accusa di avere portato la bambina di sette anni in soffitta: “E’ talmente risibile – disse allora a Newsweek – Non sono mai stato in una soffitta. Sono notoriamente claustrofobico… non mi ci trascinerebbero neanche con i cavalli”. Diceva che nessuno era in grado di pagarlo abbastanza per l’autobiografia di quegli anni deliranti. “Fu una delle più tragiche, esilaranti e oltraggiose storie mai accadute”, diceva Allen, pacificato con l’idea che si può vivere anche portandosi addosso le maledizioni dei parenti (secondo chi lo difende, nessun giudice avrebbe dato il nulla osta per l’adozione di due bambine a un molestatore di figlie adottive). Ma è arrivato, di nuovo, il momento di difendersi, di barattare l’arte con la vita. O di chiedere perdono.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.