Mazzette di moralismo
La felicità sembra sprizzare dai pori della loro pelle quando i giornalisti del Corriere della Sera dedicano tre pagine, dalla prima alla terza, al rapporto europeo sulla corruzione che in Italia peserebbe per 60 miliardi di euro, cioè il 4 per cento del pil. E, ne deduco io, per conseguenza il 5 per cento del valore aggiunto. Dunque ognuno di noi pagherebbe di media il 5 per cento in tangenti a qualcuno per produrre il suo reddito.
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La felicità sembra sprizzare dai pori della loro pelle quando i giornalisti del Corriere della Sera dedicano tre pagine, dalla prima alla terza, al rapporto europeo sulla corruzione che in Italia peserebbe per 60 miliardi di euro, cioè il 4 per cento del pil. E, ne deduco io, per conseguenza il 5 per cento del valore aggiunto. Dunque ognuno di noi pagherebbe di media il 5 per cento in tangenti a qualcuno per produrre il suo reddito. Gli articolisti del Corriere però aggiungono che, secondo il “rapporto”, solo il 2 per cento degli italiani ha ricevuto richieste di tangenti, mentre don Ciotti calcola il 6 per cento. Precisano anche che dalla corruzione vengono “penalizzate” quattro aziende su venti. Dunque un quinto delle imprese subirebbe i danni dei 60 miliardi di tangenti, con un onere del 25 per cento sul loro valore aggiunto. Nel regime moralista i numeri sono un optional.
Nella cultura intellettualista postmoderna, il peccato contro il denaro ha sostituito quello contro il sesso, la famiglia e la vita della morale cattolica tradizionale. E così nella nuova etica laica illuminista, che s’è liberata della moralità sessuale ereditata dall’Ottocento, gli ex peccati contro la vita umana (come eutanasia e aborto) sono diventati diritti di libertà degli esseri umani. L’indignazione morale ora è riservata ai peccati economici, specie corruzione, evasione o frode fiscale. (Solo a Silvio Berlusconi si applicano entrambe le morali). La Commissione europea però non è un pulpito etico. S’occupa (o dovrebbe occuparsi) della corruzione come ostacolo al libero mercato di concorrenza. Ed è da questo punto di vista che bisogna prendere il problema. Sul Corriere della Sera ormai cento anni fa c’erano le battaglie di Luigi Einaudi contro i danni dei monopoli, del dirigismo, del protezionismo.
Solo accanto, in aggiunta ai danni economici, spuntava la critica etica della corruzione nell’intreccio fra politica e affari. Edoardo Giretti aveva scritto il libro “I trivellatori della nazione”. Attilio Cabiati con Einaudi scrisse su Critica Sociale, rivista socialista riformista diretta da Turati, e su Riforma Sociale, rivista neoliberale diretta dallo stesso Einaudi, molti saggi contro il protezionismo che favoriva i monopoli di siderurgici e zuccherieri. Rileggendo questi saggi e altri simili di economisti e sociologi – ad esempio di Vilfredo Pareto e più recentemente Ernesto Rossi – ci si rende conto che la corruzione nelle società democratiche di mercato deriva da due fattori: da un lato le regolamentazioni e l’ampliamento della spesa pubblica e degli enti pubblici, dall’altro il monopolio che con essi si intreccia.
La mancanza di trasparenza, che favorisce il monopolio, protegge la burocrazia e sostituisce la propaganda alle informazioni fattuali, aiuta il proliferare della corruzione. L’economia collettivista era la più corrotta. La deregolamentazione, la sostituzione del diritto privato al diritto pubblico, la riduzione del perimetro del governo, lo sviluppo di trasporti e comunicazioni, insomma la società aperta, riducono in un angolo corruzione e criminalità organizzate basate su clan parentali. Diversamente, Gian Antonio Stella sembra supporre che per combattere la corruzione serva soprattutto un’Authority apposita, con presidente dotato di poteri, che deprechi il fenomeno in un suo bel rapporto annuale. Si legga, invece, l’articolo sottostante a quello di Stella, nella stessa pagina, che spiega che in Italia per aprire un supermercato servono il permesso di comune, regione, sovrintendenza, Arpa e, aggiungo io, il certificato antimafia e quello dei vigili del fuoco.
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