Bruxelles se la gode nella sua bolla di nomine (finché vogliono le ragazze)
La bolla europea è in gran movimento, gli oltre 200 mila tra commissari, eurodeputati, eurocrati, diplomatici e lobbisti presenti a Bruxelles sono tutti agitati per la nomina del successore del presidente della Commissione, José Manuel Barroso. L’ex premier lussemburghese, Jean-Claude Juncker, è il favorito sul commissario francese, Michel Barnier, per strappare la nomination del Partito popolare europeo durante il congresso del 6 e 7 marzo prossimi e completare la rosa dei concorrenti per l’incarico più prestigioso delle istituzioni comunitarie.
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Strasburgo. La bolla europea è in gran movimento, gli oltre 200 mila tra commissari, eurodeputati, eurocrati, diplomatici e lobbisti presenti a Bruxelles sono tutti agitati per la nomina del successore del presidente della Commissione, José Manuel Barroso. L’ex premier lussemburghese, Jean-Claude Juncker, è il favorito sul commissario francese, Michel Barnier, per strappare la nomination del Partito popolare europeo durante il congresso del 6 e 7 marzo prossimi e completare la rosa dei concorrenti per l’incarico più prestigioso delle istituzioni comunitarie. Il Partito del socialismo europeo ha già scelto il socialdemocratico tedesco Martin Schulz. L’Alleanza dei liberali e democratici, dopo una grande battaglia interna, ha preferito l’ex premier belga Guy Verhofstadt al commissario simbolo dell’austerità, Olli Rehn. La sinistra antieuropea ha proclamato come nuovo capofila il greco Alexis Tsipras, leader di Syriza e incarnazione della ribellione alla Troika. I Verdi hanno optato per due candidati – il no global francese José Bové e la vegana tedesca Ska Keller – dopo primarie aperte a tutti via internet.
“Questa volta è diverso” è lo slogan dell’Europarlamento per il voto del 25 maggio: per la prima volta, grazie al Trattato di Lisbona, i capi di stato e di governo dei 28 dovranno tenere conto dei risultati delle europee per nominare il presidente della Commissione. Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha già convocato un Vertice straordinario per il 28 maggio per discutere del successore di Barroso. I capigruppo dell’Europarlamento hanno deciso di riunirsi a pranzo lo stesso giorno per imporre le loro condizioni – e il loro nome – ai leader. La bolla europea è ancor più in agitazione per il fatto che, di qui alla fine dell’anno, altri incarichi di prestigio si libereranno: l’intero collegio dei commissari, l’Alto rappresentante per la politica estera Catherine Ashton, lo stesso Van Rompuy, oltre al posto di segretario generale della Nato. Ma nel momento in cui la crisi continua a mordere, la disoccupazione non accenna a diminuire e le forze euroscettiche sono sulla cresta dell’onda, il processo di selezione dei futuri leader dell’Unione europea – contrariamente a quanto dice l’Europarlamento – appare tanto autoreferenziale quanto in passato.
Le primarie dei Verdi dimostrano il disinteresse dei cittadini per tutto ciò che aspira a essere politica europea. In Germania gli iscritti ai Verdi sono quasi 50 mila, in Francia superano i 10 mila, ma solo 22 mila persone hanno votato per i quattro candidati (due tedeschi, un francese e un’italiana). “Ci sono stati meno votanti che a primarie regionali”, dice con preoccupazione una fonte dei Verdi. Il problema – secondo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – è che l’unica cosa che resta “maledettamente nazionale” in Europa è la politica: “Cos’è l’Unione politica di cui si parla, se non si fa vivere su scala europea il confronto politico democratico, la competizione tra le diverse correnti ideali e forze politiche organizzate?”. Ma il problema è anche quello di un’élite europea il cui unico minimo comune denominatore corrisponde sempre alla mediocrità, nonostante le sfide da fronteggiare. La rosa dei papabili segna “il ritorno degli uomini di ieri”, ha commentato ieri il Financial Times, sottolineando che “la presidenza della Commissione ha bisogno di candidati migliori”. Soprattutto nel momento in cui la pancia della gente è vuota e rigurgita versioni europee del Tea Party.
Almeno, cinque anni fa, l’ex premier britannico Tony Blair era in lizza per il posto di presidente del Consiglio europeo. Per evitare di confrontarsi con le idee forti, i capi di stato e di governo nominarono il grigio Van Rompuy, il cui unico merito era stato di presiedere per alcuni mesi lo stallo politico del Belgio senza disintegrare il paese. Per guidare la neonata politica estera europea fu scelta “Lady who?” (Ashton) solo perché donna e amica di Gordon Brown. Allo stesso modo, i candidati di oggi sono le cheerleader di una ristretta cerchia che si nutre di Financial Times e Monde, ma sconosciuti alla gente comune che si prepara a consegnare un franco successo all’estrema destra del Front national di Marine Le Pen in Francia o agli eurofobi dell’Ukip di Nigel Farage nel Regno Unito. Il socialista Schulz è ricordato soprattutto per il “kapò” che gli stampò addosso il Cav. nel luglio del 2003. I popolari ancora esitano tra Juncker, ex presidente dell’Eurogruppo che si è inventato la Troika, e Barnier, il commissario ai Servizi finanziari che non ha visto la crisi bancaria europea, mentre hanno scartato personalità più controverse come il premier irlandese, Enda Kenny. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, che rimane con i piedi per terra e si è letta i trattati, vorrebbe imporre un colpo di mano, scegliendo Christine Lagarde, la direttrice del Fondo monetario internazionale. Tanto, alla fine, nella bolla europea ogni posto è intercambiabile. Se Merkel gli dirà “nein” per la Commissione, Juncker potrebbe sempre andare al posto di Van Rompuy.
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