Berlinale 2014

L'inconfondibile stile di Wes Anderson, con qualche piccola deroga sul font

Mariarosa Mancuso

La passione di Wes Anderson per le case di bambola con tanti personaggi dentro – tutti attori che per amor suo accettano paghe al minimo sindacale, qui se ne contano almeno sedici – trova nel grande albergo di inizio Novecento un nuovo terreno di gioco. Mancava alla collezione, che oltre a varie civili abitazioni già vanta la nave dell’oceanografo Steve Zissou e gli scompartimenti del “Treno per il Darjeeling”. Stavolta, come nelle operette e nei film di Ernst Lubitsch, costruisce attorno al Grand Budapest Hotel un’intera Ruritania.

    La passione di Wes Anderson per le case di bambola con tanti personaggi dentro – tutti attori che per amor suo accettano paghe al minimo sindacale, qui se ne contano almeno sedici – trova nel grande albergo di inizio Novecento un nuovo terreno di gioco. Mancava alla collezione, che oltre a varie civili abitazioni già vanta la nave dell’oceanografo Steve Zissou e gli scompartimenti del “Treno per il Darjeeling”. Stavolta, come nelle operette e nei film di Ernst Lubitsch, costruisce attorno al Grand Budapest Hotel (modernissimo e già dotato di spa, che allora si chiamavano terme e avevano le piastrelline bianche e azzurre) un’intera Ruritania. Insomma, un immaginario staterello dell’est Europa – comparso con quel nome per la prima volta nel “Prigioniero di Zenda” di Anthony Hope, rispunterà in “Corpi vili” di Evelyn Waugh – atto ad ambientarvi storie d’amore e di avventura. Un passaggio alla Berlinale, primo tra i venti film che quest’anno gareggiano per l’Orso d’oro, era un atto dovuto.

    La Ruritania qui si chiama Repubblica di Zubrowka. Oltre al grande albergo pitturato in rosa confetto (verrebbe voglia ogni tanto di allungare la mano per controllare se i cornicioni sono di zucchero come sembrano), ha una pasticceria, un carcere con divise a righe, treni variamente sorvegliati perché siamo tra la prima e la Seconda guerra mondiale. Un monastero, sul cocuzzolo di una montagna, farà da sfondo a una delle sequenze più movimentate, il cattivo sugli sci e gli inseguitori con lo slittino. Le signore ricche vengono coccolate dal concierge Ralph Fiennes, che conosce ogni segreto del mestiere. Tra loro c’è Tilda Swinton, ottantenne pettinata come Marge Simpson (o come Elsa Lanchester in “La moglie di Frankenstein”, tranne che per la ciocca bianca). La sua morte improvvisa, e un testamento corredato da una scatola di emendamenti, danno il via alla storia.

    “Gente che va e gente che viene”, come nel “Grand Hotel” diretto nel 1932 da Edmund Goulding, con Greta Garbo che si innamora del ladro gentiluomo entrato in camera sua per derubarla. E’ chiaro che Wes Anderson non aveva in mente soltanto “Il mondo di ieri” e i racconti di Stefan Zweig quando ha scritto il copione. Ed è chiaro che l’albergo – bomboniera fuori e dentro coloratissimo, uno splendore di rosso e oro e prugna per le divise – era un luogo perfetto per farci vivere uno sveglio ragazzino, che nei film del regista (texano, anche se si veste con velluti rigati e Clarks da intellettuale parigino) non mancano mai. Moustafa, ribattezzato Zero per la sua scarsa esperienza, comincia a lavorare come fattorino e si disegna i baffi con la matita nera, per sembrare un po’ più adulto. Sarà il primo a redarguire il suo ancor più giovane sostituto, per non essere rimasto fermo e muto come una statua: solo da un certo grado della gerarchia il personale di servizio può rivolgere la parola al cliente.

    Al Wes Anderson Bingo – una specie di tombola con le fissazioni del regista al posto dei numeri, il primo che ne azzecca cinque prende il premio – avremmo già vinto da un pezzo. Anche senza aggiungere i cappelli stravaganti, la presenza di Bill Murray e di Owen Wilson, di Jason Schwartzman e di Adrien Brody, di Willem Dafoe e di Edward Norton. E le inquadrature dall’alto, le simmetrie, le composizioni da fumetto, i campi lunghi, i dialoghi anti realistici, le gag in controtempo. E i bagagli, i pacchetti, le lettere scritte in corsivo sullo schermo, le riprese da dietro una finestra. Lo amiamo per questo: ha uno stile riconoscibile fin dai titoli di testa, ora con una piccola modifica. In “The Grand Budapest Hotel” sembra avere definitivamente dato l’addio al carattere tipografico Futura (già tradito in “Moonrise Kingdom”). I colori si spengono nelle scene con Moustafa adulto e barbuto, che racconta la sua storia. L’albergo è stato ristrutturato e riarredato negli anni del socialismo reale: beige, soffitti bassi, terribili poltrone in finta pelle, sale da pranzo con tovaglie gialline, ascensori che paiono montacarichi.