Putin & Sochi
"Kabaeva sarà l’ultima tedofora di Sochi, e tu che cosa faresti per amore?”. La battuta è circolata per giorni nelle strade di Mosca, naturalmente Kabaeva è la bella Alina, trentuno anni, orgoglio russo della ginnastica ritmica e sorriso da carta patinata: se ne parla spesso per la simpatia con Vladimir Putin e sempre meno per la carriera radiosa sulla pedana. Il capo del Cremlino è intervenuto sul punto di persona, ha fatto capire che non ha tempo per le fiaccole di Sochi e ha scartato le chiacchiere sulla sua vita privata (“sono le solite montature”, neanche una parola di più, ma è già abbastanza per una buona storia).
“Vuoi ricevere un alloggio governativo con legna, luce e servizio del quale poterti indignare” (Fëdor M. Dostoevskij, “Il sosia”)
"Kabaeva sarà l’ultima tedofora di Sochi, e tu che cosa faresti per amore?”. La battuta è circolata per giorni nelle strade di Mosca, naturalmente Kabaeva è la bella Alina, trentuno anni, orgoglio russo della ginnastica ritmica e sorriso da carta patinata: se ne parla spesso per la simpatia con Vladimir Putin e sempre meno per la carriera radiosa sulla pedana. Il capo del Cremlino è intervenuto sul punto di persona, ha fatto capire che non ha tempo per le fiaccole di Sochi e ha scartato le chiacchiere sulla sua vita privata (“sono le solite montature”, neanche una parola di più, ma è già abbastanza per una buona storia). Certo è che molti avranno seguito la cerimonia cercando Kabaeva accanto al fuoco olimpico, anche perché il nome dell’ultimo tedoforo è rimasto segreto sino all’ultimo minuto. Dopotutto, alla Russia farebbe bene scoprire che persino il presidente si può innamorare.
Sarà per amore, sarà per i rubli, ma questi sono i Giochi di Putin, “Igry Putina”, come scrivono i giornali in patria usando un po’ d’ironia: nessuna opera portata a termine negli ultimi quindici anni ha il marchio di Putin quanto le Olimpiadi di Sochi, e nulla durerà così a lungo dopo di lui. Sulle coste tiepide del mar Nero sono piovuti in pochi anni 35 miliardi di euro, una cifra senza precedenti servita per trasformare la periferia malconcia del paese nel centro ultramoderno che tutti oggi osservano, per cancellare le case basse e i sanatori dell’epoca di Stalin e piazzare al loro posto l’effigie della Russia al tempo di Putin. Lo stadio olimpico Fisht (il nome viene da una montagna del Caucaso) è costato mezzo miliardo, può contenere quarantamila persone e visto dall’alto sembra un enorme fiocco di neve; il palazzo del ghiaccio Bolshoi vale 150 milioni, ospiterà le gare di hockey e somiglia a una goccia d’acqua gelata; una nuova ferrovia conduce in trenta minuti dal villaggio olimpico alle piste da sci di Roza Khutor (a Vancouver, nel 2010, ci volevano due ore per trasportare gli atleti da un punto all’altro). I lavori hanno cambiato per sempre Sochi e i suoi abitanti, così li senti che raccontano: qui c’erano solo campi di cavoli, questo era un quartiere di palazzi sgangherati, adesso abbiamo gli hotel a cinque stelle. Molti si lamentano – il governo ha espropriato le case e i terreni di circa tremila persone – ma si lamentano anche i russi di Mosca, di San Pietroburgo e di Samara, sulle rive del Volga, che hanno visto scendere su Sochi e solo su Sochi tutti quei soldi in un momento complicato per l’economia. Questa è la Russia, il progresso arriva dall’alto e viene tutto in un colpo, non è il frutto di uno sforzo, somiglia a una benedizione: ti arricchisce o ti travolge, a volte fa le due cose insieme.
Pare che l’idea dei Giochi non sia venuta direttamente a Putin ma a un uomo che gli è molto vicino, Vladimir Potanin, milionario e magnate delle materie prime, dopo una vacanza in Austria: “Possiamo farcela” era il messaggio dell’oligarca, “dobbiamo farcela” è diventato il motto di Putin. Che ha tenuto il progetto sotto il suo diretto controllo per sette anni, è stato nei cantieri decine di volte, ha rimosso i costruttori che riteneva inaffidabili, ha firmato le carte per gli innumerevoli aumenti di budget, ha costruito giorno dopo giorno la rete di sicurezza intorno alle strade di Sochi, con settantamila uomini in città per l’intera durata delle Olimpiadi – e fra loro ci sono anche contractor stranieri, qualche agente dell’Fbi e quattrocento cosacchi in divisa da Grande Ottocento. Le telecamere di Pervyj Kanal hanno ripreso il presidente nella sua visita fuori programma alla mensa degli atleti mentre aspetta la cena. Non è un caso, perché il lavoro di Putin passa anche attraverso i media. Alla vigilia dei Giochi il capo del Cremlino ha deciso di smontare l’agenzia di stampa Ria Novosti, le ha cambiato nome (si dovrebbe chiamare Rossiya Segodnya, che significa “Russia oggi”) e ha affidato il comando a un giornalista affidabile, Dmitri Kiselev, che già conduce un programma controverso sul canale Rossiya 24 – l’anno scorso si è lasciato andare a commenti duri nei confronti degli omosessuali, una volta ha detto che gay e lesbiche non dovrebbero donare sangue, sperma e organi. Il primo compito della nuova Ria è proprio seguire queste Olimpiadi, e bisogna farlo senza commettere errori. Per la stessa ragione Putin ha scelto personalmente un altro autore televisivo, Konstantin Ernst di Pervyj Kanal, per dirigere la cerimonia che è andata in scena allo stadio Fisht. A prima vista Ernst e Kiselev sono le persone più distanti che si possano immaginare, uno si muove dietro le quinte e l’altro è dritto al centro della scena, uno ha l’aria svagata dell’artista mentre l’altro somiglia agli impiegati delle poste. Pervi Kanal segue una filosofia più che una linea editoriale: tutti gli uomini sono malvagi, nessuna nazione è meglio delle altre, ma noi russi riusciamo ad ammetterlo senza ipocrisia ed è questo che rende la nostra nazione più morale. Secondo Ernst il potere è un dono che non si può discutere, e basta un dettaglio per capire quanto sia importante la sua opinione agli occhi di Putin: gli architetti che hanno progettato il Fisht non volevano un tetto per la loro struttura, è stato il regista a chiedere che fosse costruito. Così è stato.
L’attenzione per i media non ha risolto tutti i problemi di Sochi, questo è ovvio. Da qualche giorno i reporter americani pubblicano i loro scatti migliori su Twitter, con l’acqua gialla che esce dai rubinetti e strani bagni con due tazze – immagini piuttosto familiari per chi ha visitato il Caucaso almeno una volta nella vita. Il leader dell’opposizione Alexei Navalny ha alzato il livello della denuncia, spiegando sul suo sito internet chi-ha-corrotto-chi nella corsa miliardaria agli appalti di Sochi (qui nasce l’altro nome che i russi usano per le Olimpiadi, ovvero “Kurumpiad”). Un solo esempio grottesco: le 14 mila fiaccole che hanno attraversato la Russia e che sera hanno acceso il braciere olimpico dovevano essere prodotte da una società pubblica, Krasnoyarsk, specializzata nelle apparecchiature militari. Ma Krasnoyarsk ha girato la commessa a un’azienda privata piena di studenti sottopagati nella catena di montaggio. Risultato: non c’è stato giorno senza notizie di una fiaccola spenta. Le polemiche non fermano Putin, che considera i Giochi come un messaggio intimo al suo popolo: “La Russia non ha rivali, ne ha uno solo, se stessa, i nostri problemi e le nostre difficoltà interne”, ha raccontato nel documentario trasmesso in tv dopo la cerimonia di ieri, e in quelle parole torna il confronto fra la nazione e la sua coscienza, la battaglia al nichilismo della madrepatria, un peccato dello spirito che oggi molti attribuiscono proprio al presidente.
Ma c’è anche un altro messaggio, un po’ più materiale, che molti leader ascolteranno seduti sul divano di casa – sempre che non abbiano preso altri impegni per la serata. Oggi Putin dice al mondo che la Russia è un paese normale, l’economia tiene, l’opposizione è libera di votare o scendere in piazza, non è l’Europa, ma il sistema regge. Barack Obama e Angela Merkel hanno respinto l’invito a Sochi, ufficialmente per una legge della Duma che limiterebbe i diritti degli omosessuali (anche il segretario generale dell’Onu, Ban ki-moon, ha chiesto a Putin di cancellare tutte le discriminazioni). Ma è possibile che le ragioni della protesta siano diverse. Negli ultimi mesi le differenze tra il Cremlino e la Casa Bianca sono aumentate, gli ambasciatori tacciono, i ministri s’ignorano, le segreterie hanno quasi interrotto gli scambi. Il 2013 è stato un anno d’oro per Putin e ha coinciso con i passi indietro di Obama sulla scena internazionale: il presidente russo ha convinto gli Stati Uniti a lasciar perdere l’idea di un attacco in Siria contro Bashar el Assad, si è trovato Edward Snowden in un aeroporto di Mosca con i segreti dell’Nsa, ha avuto la meglio nella questione ucraina. Anche Matthew Bryza, ex ambasciatore americano nella regione del Caucaso, ha scritto un editoriale sul Wall Street Journal per dire che la scelta di snobbare i Giochi per difendere i diritti gay può essere encomiabile, ma che si tace su questioni un po’ più calde. L’Amministrazione Obama ha dimenticato che i soldati russi occupano ancora l’Abkhazia e l’Ossezia del sud, ricorda Bryza, due regioni strappate alla Georgia con una guerra lampo nel 2008, in una parte del mondo che è sempre decisiva per la sicurezza dell’occidente. Rispetto alle proteste di Obama e Merkel, Putin pare temere di più le minacce dei terroristi islamici, che hanno colpito Volgograd solo due mesi fa e vogliono trasformare Sochi in un incubo per il Cremlino. La guerriglia s’è fatta liquida, i ribelli non affrontano più i soldati russi faccia a faccia ma s’insinuano nelle falle della sicurezza, si fanno saltare negli aeroporti, nelle stazioni della metropolitana e sui treni che attraversano la Russia. In molti casi non si tratta di combattenti regolari, non è gente che riceve un vero addestramento, sono giovani che portano a termine i loro attacchi per vendicare la morte di un familiare (questa storia è comune a molte “vedove nere”, così sono chiamate le donne del Caucaso protagoniste di alcuni attentati eclatanti negli ultimi anni). E’ una lotta difficile che sposta verso l’alto il livello dei controlli: in Russia è diventato impossibile salire a bordo di un aereo con qualsiasi tipo di liquido, è stato persino ipotizzato che i terroristi potrebbero nascondere l’esplosivo nei tubetti del dentifricio. Un attacco alle Olimpiadi trasformerebbe davvero Sochi in una rovina per Putin.
Per ora non si può dire che l’operazione dei Giochi abbia grande successo all’estero. Molti evocano Mosca 1980, le ultime Olimpiadi che la Russia ha potuto ospitare: allora molti paesi decisero di boicottarle a causa dell’invasione dell’esercito sovietico in Afghanistan. L’Economist ha paragonato la Russia di Putin alle pagine più disperate di Gogol, il Wall Street Journal ha scritto che il presidente pensa di essere come Pietro il Grande, ma somiglia più a Grigory Potëmkin, il consigliere di Caterina che costruì villaggi fantasma lungo la costa della Crimea per impressionare l’imperatrice. Secondo il Financial Times, il capo del Cremlino si gioca tutto con queste Olimpiadi – e già si parla di una possibile sconfitta alle prossime elezioni nel caso i Giochi diventino un fallimento. A Parigi non sono meno critici, ma hanno un senso estetico più sviluppato e pubblicano pareri differenti (“Sono forse stati i francesi a portare di moda la noia?”, domandava Maksim Maksimyc a Pechorin in un romanzo di Lermontov, “Un eroe del nostro tempo”, e quello gli rispondeva: “No, gli inglesi”). “Magique Russie”, dice la copertina di Figaro Magazine, “Poutine Superstar” risponde l’Express. Ma c’è un particolare di cui pochi tengono conto in questi giorni di festa, scandali e timori per la sicurezza. Quindici anni fa, a cinquecento chilometri dalle piste di Sochi, si combatteva la guerra cecena, un conflitto sanguinoso che ha provocato cinquantamila vittime. E allora il gran mufti della provincia indipendente, Akhmat Kadyrov, diceva in pubblico che ogni ribelle avrebbe dovuto uccidere “almeno 150 russi” per portare equilibrio fra le due popolazioni. Oggi la guerra è finita, il Caucaso è tornato sotto il controllo di Mosca e il figlio di Akhmat, Ramzan Kadyrov, ha deposto le armi e governa sulla regione: il pericolo del terrorismo resta e preoccupa il Cremlino, ma nessuno quindici anni fa avrebbe potuto immaginare di scendere fra i pini, sulle coste del mar Nero, per vedere i Giochi olimpici di Sochi.
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