L'uomo di fiducia

Stefano Di Michele

"Babbeo” – ebbe a dire Denis, tra lo sbattere dei piattini e il tintinnare dei cucchiaini (Denis come Dionigi, figlio di Giove, pur adesso nell’Olimpo arcoriano di scontento e lenta noia: più Dudù che Afrodite). Babbeo a chi, poi? Né nome fu detto, eppure nome fu inteso a Antonello Piroso (che l’esser vero cronista, si sa, neppure il frappè dimenticare fa): quello di Giovanni Toti, consigliere un giorno a levante un giorno a ponente del Cav.

    “Ma anche se non aveva da percorrere una grande distanza, aveva tutta l’aria di averne già percorso una lunghissima” (Herman Melville, “L’uomo di fiducia”)

    "Babbeo” – ebbe a dire Denis, tra lo sbattere dei piattini e il tintinnare dei cucchiaini (Denis come Dionigi, figlio di Giove, pur adesso nell’Olimpo arcoriano di scontento e lenta noia: più Dudù che Afrodite). Babbeo a chi, poi? Né nome fu detto, eppure nome fu inteso a Antonello Piroso (che l’esser vero cronista, si sa, neppure il frappè dimenticare fa): quello di Giovanni Toti, consigliere un giorno a levante un giorno a ponente del Cav. – uno che di suo prende consigli con democratica facilità – che bianco apparve lassù alto sul balcone della beauty farm, novella Giulietta per novella Forza Italia, “come sei giunto fino a qui?, dai, dimmi come e perché”, quattro centimetri di girovita persi in una settimana di bietole bollite, che per pareggiare i fianchi di Renzi a questo ritmo bisognerà attendere le amministrative del 2023, come Dalidà, “se il mio cuore batterà / chi lo sa, chi lo sa”. “Babbeo non dissi” – ebbe a precisare (con giuramento e rumoreggiar di denti) Denis, che l’avrebbe detto, peraltro, a un misterioso interlocutore indicato quale “boh” – sarebbe come passare da Pian dei Giullari a Conrad, da Campi Bisenzio a Le Carrè. “Non ho motivo di rivolgere all’amico Toti espressioni offensive, al contrario, anche perché chi mi conosce sa bene che se devo dire qualcosa lo faccio a viso aperto, in modo diretto, parlando all’interessato, e mai e poi mai alle spalle”. Ora, pur se la parola “amico” qualche sospetto sempre alimenta, è vero che Denis Verdini, mercante di carni e banchiere, quarti di bue e mutui, ispiratore/suggeritore/incitatore/esortatore/istigatore (a volte) del Cav. – volendo, e stando alle cronache: un Toti cubico – in faccia le cose te le dice, il suo piccolo vaffa-day quotidianamente se lo celebrava dal tinello di casa al mejo tavolo all’“Ostrica Blu”. Poi le spalle uno se le guarda lo stesso, ed è meglio – machiavellica è la sorte e machiavellica è quella terra – ma se sei una “pippa!”, pippa Denis ti dice; se sei uno “stronzo!”, quale stronzo sarai santificato; se sei “babbeo!”, figurarsi, e tanto per dire, è niente più di una carezzevole carineria. Ché se le mani verdiniane hanno abbastanza forza da produrre un coniglio porchettato o un lesso rifatto con le cipolle, sanno di poter sottolineare pubblicamente un babbeo come tale senza trafficare intorno alla bustina dello zucchero con Mr. Boh. Come il camionista di quel famoso film di Verdone, appare l’arto Verdini: “Sta mano po esse fero e po esse piuma: oggi è stata piuma…”. Al diretto interessato, probabilmente, anzi certamente, “babbeo” viene più facile di un banale complimento. Che poi, perché babbeo e non il più logico, linguisticamente parlando, bischero?
    Che Denis non sia spirito, piuttosto materia, salta subito agli occhi. Che Denis ci sia – con conti, con tabelle, con dossier: sempre di carte carico come i canonici bibliofili di Anatole France, e qui il soccorso e la curiosità di un Dell’Utri – ognuno lo sa, dove sia e cosa faccia nessuno certezza ha. Materia, non spirito, appunto. Sempre una pecorella su cento smarrita, sempre una bestia da andare a recuperare, sempre un ovino o un bovino in forma di parlamentare da riportare alla stalla, o da trasportare nel ranch – con acqua fresca e verdi prati – del ranchero di Arcore (se poi, mutato in putto vicino alla divinità, come in un quadro di Raffaello, e politicamente ridotto con il bue squartato di Rembrandt, si vedrà). Se Toti ha da misurare i centimetri dei fianchi, a stringer cinghia che in centimetri largheggia, Verdini ha quella bella pancia da signorotto rinascimentale che né di buchi né di chili ha da render conto ad alcuno, che da “Sabatini” al più si può accomodare a cena, e a rosicchiare carote bollite e sedano crudo, come coniglio in gabbia con porchettatura quale finale destino, nemmeno ci pensa. Pancia peraltro perfettamente percorsa, in linea curva che poi precipita a cascata, come linea di montagne russe, da certe cravatte sgargianti e damascate – rinascimentali, appunto – che l’occhio estetico del Cav. devono non poco tormentare. Perché poi Verdini – per forza, per conoscenza, per sapienza pratica e filosofica di numeri e di animo umano – il gusto di essere come nessun altro se lo coltiva e con esso con gran piacere convive. La faccia verdiniana è così faccia che altrove non si vede – faccia che tutto sopravanza, abbronzata/sfrontata/ghignante/ridente/museale: da profilo su moneta, da pietra incisa. E il vaporoso ed elaborato e abbondante crine che sulla nuca s’adagia, tricologicamente evocativo – a voler restare nelle sue contrade d’origine – di certi ritratti di Gian Gastone de’ Medici, l’ultimo granduca di Toscana. Scansando, si capisce, tanto l’effeminatezza dello stesso quanto la sua avversione per la gestione del potere come il suo cadere in mano di profittatori: i “ruspanti” che tutt’al più Verdini benevolo può spedire a brucare in una lista elettorale, ma dei quali sa prendere misure e distanze. “Farsi dare del coglione, e del viso di cazzo, e becco fottuto”: ecco, nulla di tutto questo con Denis è consigliabile da dire. Se al triste ultimo esponente dell’illustre casata medicea ogni cosa sfuggiva di mano e di mente, a Verdini nessuna cosa appare velata o complicata o sottratta. Uomo d’ombra, dicono, pur nel fulgore di chioma e dentatura e cravatta – che dentro l’ombra s’avventura. E l’ombra apparentemente non teme, anzi l’ombra in certa considerazione tiene e desidera, e volerla molto elevare borgesiana si potrebbe pure definire, “vivo tra forme luminose e vaghe / che ancora non son tenebra”. Una faccia che pur ornata dei (semi) boccoli di Gian Gastone, ha la durezza pietrosa di quella di Decebalo, gran capo dei Daci sconfitto da Traiano – “costui era doppiamente scaltro, tanto nella tattica quanto nelle azioni belliche” (Dione Cassio) – e che ha trovato consacrazione e pietra tanto nell’apposita raffinata colonna, quanto nella scultura di quaranta metri edificata su una montagna della natia Romania – “Decebalus Rex”. Dicono: può essere forse come il conte Mascetti, quello di “Amici miei”, il Tognazzi da supercazzola? A ragione di toscana consuetudine, magari – ma la faccia è altra: da Adolfo Celi, casomai. Da professor Sassaroli con “clinica in collina”. O come il feroce Lord Brooke dello stesso Celi – avverso a Sandokan e alle sue sdolcinature con “la perla di Labuan”.

    Qui al Foglio – prima che qualche saltapicchio parlante venga fuori a ricordarlo: meglio, a imputarlo – abbiamo qualche motivo di gratitudine nei confronti del dottor Verdini, banchiere – non escluse certe caciotte senesi o inquietanti barattoli di ribollite. E motivi di confortante memoria ha lo stesso Elefantino da quando nel ’97 ebbe l’ardire della “malandrinata” della candidatura nel rossissimo Mugello contro Antonio Di Pietro – Mugello da percorrere in Mercedes bianca, a giusta evocazione, e il dottor commercialista Verdini, del Credito fiorentino – la “banchina dei preti” che aveva acquisito – era lì: a indirizzare, a scortare, a suggerire, in landa ostile, “hic sunt leones”: felini dalemiani convertiti al dipietrismo allora ruggente. Non un appuntamento, non un comizio, non un incontro Verdini mancò. Venne pure il Cav., in temerario comizio nel cuore rosso d’Italia, con clima vicino allo zero, “G., guardi come mi ha ridotto, ho fatto il comizio al freddo col pa-le-tò”, così disse il Cav., col paletot, che giusto giusto pareva, lì nel ridotto dell’Hotel Minerva, mentre si stringeva nel pregevole capo di sartoria, il compagno Francesco Guccini alle prese con l’epica di “Eskimo”, così che “e mi pesava quel tuo paletò…”. E si capisce che – metti le banche e metti Berlusconi, metti le cricche e metti le logge fiorenti sui giornali, metti i lodi (le grandi muraglie berlusconiane mai servite a nulla) e metti geni e capre in lista – non poco i magistrati si sono interessati (e si interessano) al Decebalo di Campi Bisenzio, che essendo uomo di opere ha arditamente sempre operato, e gagliardamente sempre rivendicato. “E’ una cazzata! E’ una cazzata!”, esplodeva in una memorabile puntata di “Report”, vagante tra Credito cooperativo fiorentino e pratica di macellazione lì a Campi Bisenzio, “quest’uomo è stato dipinto come un demonio, probabilmente lo è”, voci misteriose nella penombra – con macellai di zona a spiegare che da quelle parti “tengono la carne piuttosto sul grassino, l’è più tenera”, e a spiegare adeguata e gustosa e sanguinaria ripartizione, “le parti migliori degli animali e il muscolo per lo spezzatino, il bollito con le costoline, lo spicchio di petto… Ha capito, insomma… E poi si va alla bistecca che è lei in finale di tutto la cosa…” – mentre Verdini, attardato quale banchiere sui prestiti piuttosto che sul filetto da ex mercante di carni, rispediva al mittente con ardente passione, “ma quali cazzo di fatti?… quali fatti? 56 mila pagine di cazzate!… cazzate, fatte girare, come si dice?, come polvere…”. O le cene a casa – quella casa dentro lo splendido Palazzo Pecci Blunt, lì a ridosso del Campidoglio, l’occhio su Marc’Aurelio a cavallo, a farsi imperiale il pensiero potrebbe come niente correre, e un baldacchino in una camera larga come un “hangar aeroportuale”, secondo i giornali, per accoglierne il riposo: da guerriero, con adagiamento alla Paolina Bonaparte – con certi magistrati attovagliati, dicevano gli accusatori a far pressioni, a fare argine all’argine (sempre) franante del lodo (ancora?), e una cena perciò si fa sospetto, e un’adunata (un po’ amicale, un po’ di convenienza?) prende a transitare dal filetto al complotto.

    Campi Bisenzio è un luogo non di elevazione, piuttosto di operazione. Verdini, nel suo guazzabuglio e nella sua generosità, ne è perfetta incarnazione. Taglio (di carne). Taglio (di monete: ché ciò un banchiere fa). Taglio (di teste, dicono gli antipatizzantini dentro il partito). Ma fu innalzato, proprio lì a Campi Bisenzio, Verdini, da una cantata sul palco insieme a Fiorello, “ladies and gentlemen, ho il piacere e l’onore di avere qui con me sul palco questa sera… here on the stage with me… the first, the first one, the presidente, Mr. Denis Obama…”, e via in coro con “rose rosse per te / ho comprato stasera / e il tuo cuore lo sa / cosa voglio da teeeeeeee”. E fu festa, proprio prima della slavina, “happy birthday to you i 100 anni del Credito cooperativo fiorentino verranno festeggiati con una seduta spiritica”, esaltava il grande show man, viva viva l’anno che verrà – che poi anno che a non venire meglio era, quel 2009 – “e sì, diciamolo, sarà un anno splendido alla faccia di chi gufa, di chi gufa, di chi gufa… Allora, ragazzi, vogliamo chiudere in bellezza?”. Se è sangue e merda la politica – e qui pure sangue di macellazione, oltre che sangue di lotta politica: canale di scolo nel macello e in Transatlantico. E Verdini è certo lottatore che lontano dalla riva non si fa spingere, è stato naufrago mediaticamente ideale tantissime volte, e tantissime e più volte è riuscito a non far transitare troppa acqua nei suoi polmoni. E non si resiste, in politica, solo in virtù della forza – ché quelli son solo i “ruspanti”, di breve respiro, gestori di fagiolini da ottanta euro al chilo. E i suoi du’ metri de torace, come “Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio”, espose un dì di torrida estate – con il Cav. condannato, definitivamente sanzionato – là dal balcone di via del Plebiscito, in camicia di lino bianco, petto in mostra, alla luce accecante del sole come mai prima: Decebalo dei Daci e dei berlusconiani, quando la sorte ultima pareva compiersi.

    Materia pura, è il senatore Verdini – “chiacchierato, temuto, invidiato, odiato” (si legge sui giornali). Filetto, controfiletto, partita doppia, candidatura, contro candidatura. Guerra, accordo, battaglia, pace, sospetto. Il Cav. sempre, astro luminoso, ma non diamo da chiacchierare alle malelingue di Campi Bisenzio: “E’ quasi impossibile non subire la fascinazione di Berlusconi, ma io mi innamoro delle donne. Non vorrei che oltre a sostenere che sono massone si dica che sono anche gay” – vade retro povero Gian Gastone, felicemente sposato il sen. Verdini con Simonetta Fossombroni, fervida e nobile mazziniana. La giornalisticamente rivelata telefonata a Renzi (ché a intendersi, sempre per questioni territoriali, per sbrigativa liquidazione dei perdigiorno e per comprensibile autoconsiderazione, tra i due difficile non deve essere), “O Matteo, io e te ci si deve parlare”. Il caffè al bar con il compagno Ugo Sposetti, comunista di acclarato buonsenso, e tutti i saltapicchi subito a muoversi a indignazione, “il patto del cappuccino!”, nientemeno, e altri a rimirare le foto dei due e a trarne fisiognomica deduzione, “se qualcuno ha visto il video ci avrà fatto caso: stanno tutti e due con la testa incassata nelle spalle. Sììììì: stiamo confabulando e lo vogliamo far sapere a tutto il mondo”. E ciò nonostante certi libri dati alle stampe, le lezioni di economia politica presso la Luiss, i comuni natali in quel di Fivizzano con il collega-poeta Sandro Bondi (dal poetare, saggiamente, Verdini lontano si tiene) che forse da lui ebbe in dono calzini, nel caso e non a caso si abbandona a una citazione di Montale, “bisogna aver fiducia nell’imprevisto”, e l’imprevisto non meno del previsto è il Cav. per primo, “ne nasce uno ogni 500 anni come lui”, e il mezzo millennio fa cifra tonda e felice anniversario del “Principe” del Machiavelli ripetutamente messo in mezzo, “sono innamorato di quel libro”. E di tutto il libro di una citazione particolare, una lettera di Messer Niccolò a Lorenzino: “La Signoria Vostra rivolga lo sguardo qui, nel basso, dove sono io, e si accorgerà delle cose umane”. Dice Verdini: “E’ un memento a cui ricorro spesso nelle riunioni”. Guardate qui. Guardate me. Guardate Denis. Che a volte ciò che avete nel piatto ho apparecchiato: satolli di proteine animali e di umane ambizioni. Le cose umane, appunto – come un giorno, si racconta, ebbe modo di spiegare, con il concorso non poetico ma strategico di Bondi, al professor Gaetano Quagliariello di fresco approdo (ora di fresco distacco) in casa berlusconiana. Chiarì subito, l’uomo di Campi Bisenzio: “Ho detto scherzando: guardi che qui non siamo all’università. Lei è il manutengolo del manutengolo (che sarei io) del cameriere di Berlusconi, cioè Bondi”. Il quale Bondi, presente e rapido, ebbe a precisare con felice battuta: “Maggiordomo, prego”. Un santo, certo, Verdini non è – e della santità tutta del resto dubita, e del Tevere largo, il più possibile largo, da antico spadoliniano è tuttora sostenitore – e nei giorni del Pri fu pure sfortunato candidato, con manifesto con facciona puntata sull’elettore: “Guardiamoci negli occhi” – facciamo poi a chi li abbassa prima. Un santo no, un santo mai, azzurro per convenienza e non celeste per credo. Ma proprio demonio magari neppure.

    Forse, tra “Amici miei” e sovrani dei Daci, decadenza dei Medici e deferenza verso il genio di Machiavelli, la più perfetta incarnazione letteraria di Denis Verdini è ne “L’uomo di fiducia”, un bellissimo romanzo di Herman Melville (appena ritradotto da Sergio Perosa, edizioni e/o), il “Confidence-Man”, che si imbarca sul battello “Fidèle” lungo il corso del Mississippi, che “fece improvvisamente la sua comparsa come Manco Cápac sul lago Titicaca, un uomo con un vestito color panna”. Un libro di voci, di folla – di travestimenti, di filosofia, di imbrogli, di continua messa in scena. Delle cose (delle cose sgradevoli, anche) pirandelliane quasi, umane. E tutto intorno al misterioso “uomo di fiducia” la storia ruota. “La prego, signore, in chi o in che cosa lei ha fiducia?”. “Ho fiducia nella sfiducia: specie se applicata a lei e alle sue erbe”. Il mondo che affolla il battello è vario e a caccia di occasioni – umane cose, Forza Italia in miniatura. “Indigeni d’ogni sorta, e forestieri; uomini d’affare e gaudenti; uomini di salotto e uomini di frontiera; cacciatori di professione e cacciatori di fama; cacciatori d’ereditiere, d’oro, di bufali, d’api, di felicità, di verità, e cacciatori, ancor più accaniti, di tutti questi cacciatori. Donne di quantità in pianelle, e squaw coi mocassini; speculatori del nord e filosofi dell’est; inglesi, irlandesi, tedeschi, scozzesi, danesi; mercanti di Santa Fe avvolti in coperte a righe, e damerini di Broadway con cravattoni di lamè dorato; attraenti battellieri del Kentucky, e coltivatori di cotone del Mississippi in tutto simili a giapponesi; quaccheri vestiti in tela grezza, e soldati dell’esercito in uniforme d’ordinanza; schiavi, negri, mulatti, mezzomulatti…”. Umane cose, sempre; umane genti, sempre – da sfamare, carne sotto sale e carni in decomposizione sul grande fiume, con fiducia nell’imprevisto. E fiducia saggia nella sfiducia. A terra e sull’acqua. E’ Verdini perfetto uomo di fiducia. E di sfiducia – quando più della fiducia la sfiducia serve.