Mia über Allen

Annalena Benini

La sola certezza, nelle infinite cause e conseguenze del disamore tra Woody Allen e Mia Farrow, è la distruzione dell’idea di famiglia caotica e felice che Mia Farrow ha rincorso con caparbietà e senso delle sproporzioni. Anche adesso, mentre pubblica su Twitter foto di bambini biondi che giocano con le caprette nella casa in campagna, uova di gallina che mostrano il mistero perfetto della vita, pupazzi di neve e lucertole, mentre scrive che proteggerà sua figlia e la verità, la verità è ridotta al rancore.

    La sola certezza, nelle infinite cause e conseguenze del disamore tra Woody Allen e Mia Farrow, è la distruzione dell’idea di famiglia caotica e felice che Mia Farrow ha rincorso con caparbietà e senso delle sproporzioni. Anche adesso, mentre pubblica su Twitter foto di bambini biondi che giocano con le caprette nella casa in campagna, uova di gallina che mostrano il mistero perfetto della vita, pupazzi di neve e lucertole, mentre scrive che proteggerà sua figlia e la verità, la verità è ridotta al rancore. Uno dei quattordici figli, Moses, dice: avere mia madre contro era terribile, lei mi spinse insistentemente a odiare mio padre, mia sorella si è inventata tutto per assecondarla; la sorella, Dylan, risponde: per me mio fratello è morto, e intanto chiede al mondo con insistenza di riconoscere la malvagità e la perversione del padre adottivo, Woody Allen, che ha sposato sua sorella e che forse, nello stesso periodo in cui amoreggiava in segreto con Soon-Yi, metteva le mani addosso a lei, bambina. Questo intreccio di legami tenuti insieme dall’odio e da un’idea di orrore, adesso, è l’opposto del sogno compassionevole, campestre e accogliente al centro del quale Mia Farrow aveva intensamente voluto mettere Woody Allen, per salvarlo dal suo narcisismo offrendogli in cambio il proprio e la propria idea di perfezione. L’uomo che nel 1980 andava a cena a casa di Mia Farrow, a Manhattan, sbuffando perché lei stava dal lato sbagliato di Central Park (West), e si rifiutava di mangiare cose preparate da lei in quella cucina, e di usare le loro posate e i loro piatti e bicchieri, per via dei gatti che vivevano lì e spesso saltavano sul tavolo della cucina. Compravano cibo cinese, e Woody Allen, all’epoca cinquantenne, portava il termometro per misurarsi la temperatura ogni dieci minuti, al massimo, se si sentiva molto bene, faceva passare due ore. Odiava e odia ancora la campagna, le stanze senza aria condizionata, l’ottimismo, le celebrazioni, il Natale, i buoni messaggi (“In conclusione, vorrei avere un qualche messaggio positivo da trasmettervi. Non ce l’ho. Vi accontentate di due messaggi negativi?”, così finisce un suo vecchio monologo), ha il terrore delle docce utilizzate da altri. Questo succede nella realtà, oltre che nei film di Woody Allen. Questa è la vita di un uomo così nevrotico da permetterci di perdonare l’affetto che proviamo per tutte le nostre nevrosi. Quando l’amore era ancora amore, con il sesso e tutto il resto, e Woody Allen si sforzava di giocare con i figli di Mia Farrow e di trovarli carini, andava a volte a trovarli in campagna, ma non voleva fermarsi più di una notte, per motivi igienici. Mia, decisa a fargli cambiare idea, ma soprattutto, ed è questo forse lo sbaglio più grave, decisa a farlo cambiare, gli preparò una sorpresa: lui non tollerava di immergersi in una vasca da bagno e, a casa di Mia a New York, se si sentiva sudato, tornava in fretta a casa propria per farsi una doccia con i sandali speciali da doccia. Così lei fece costruire in campagna una doccia in piastrelle, sperando che lui avrebbe adorato quella casa anche per via della doccia in piastrelle. La sera Woody Allen estrasse dalla borsa da viaggio un tappetino di gomma bianca, evidentemente antigermi, e lo portò con sé nel bagno. Ne uscì poco dopo, deluso e con il tappetino ancora arrotolato sotto il braccio. “Lo scarico è al centro del piatto”, disse scuotendo la testa e gli occhiali. Al centro del piatto, non in un angolo: era una specie di pugnalata al cuore, una violazione dei diritti umani, e Mia Farrow presto fece costruire un altro bagno, con la giusta doccia. Ma Woody Allen continuò a odiare quella casa, la campagna, le zanzare, le lucertole, gli animali in genere, il mare anche se durante l’inverno del 1981 comprò una palazzina sull’oceano, all’estremità settentrionale di Long Island: si incontrò spesso con gli architetti e l’arredatore per la ristrutturazione, fece mettere tende con i tessuti di Laura Ashley alle finestre, scelse mobili di legno chiaro, spese milioni di dollari, infine invitò Mia e i bambini per il weekend (erano sette allora, tre figli biologici avuti dall’ex marito André Previn e quattro adottati), ma dentro quella meraviglia diventò subito di cattivo umore. La casa non lo convinceva, la spiaggia lo innervosiva, essere lontano da New York lo angosciava. La mattina dopo se ne andarono in fretta e Woody Allen vendette la casa e tutto quello che c’era dentro.

    Questa è la versione di Mia Farrow, nell’autobiografia uscita per Mondadori sedici anni fa, “Quel che si perde”, in cui descrive se stessa intenta a sbucciare orgogliosamente patate, liberare giardini dalle pietre, usare la falciatrice, fare shampoo antipidocchi a bambini salvati in ogni angolo della terra. E impegnata a sperare, con incrollabile e incosciente fede, nella possibilità che un giorno Woody Allen potesse diventare come lei, felice di digiunare per il Darfur e di preparare trappole per topi con il burro di arachidi, o di cercare un nuovo figlio in un orfanotrofio vietnamita. Angelina Jolie ce l’ha fatta, Mia Farrow no. Anche se era davvero pazza di Woody Allen e di tutte quelle fissazioni: un concentrato di genio e brillantezza, un uomo molto più sicuro di sé di quanto non fosse il suo personaggio cinematografico, anche se per scegliere il tessuto delle lenzuola doveva prima parlarne con uno dei suoi psicanalisti; un newyorchese di lusso, amante del lusso, che per corteggiare una donna e invitarla fuori a pranzo la faceva chiamare ogni settimana dalla segretaria. Mia Farrow aspettava la voce della segretaria come si aspettano le buone notizie, scriveva bigliettini, cercava di essere all’altezza della conversazione, di ascoltare i movimenti lenti di Mahler ed esserne estasiata. Lui aveva una Rolls Royce bianca con cui la portava in giro per la città, ma quando entrò a far parte della vita famigliare di Mia Farrow (anche se le aveva detto, durante una passeggiata a Central Park: “I bambini mi interessano zero”), la cambiò con una Limousine nera che potesse contenere tutti i marmocchi. Era quasi il cielo con un dito. Una delle prime volte Mia Farrow gli lasciò a casa un paio di ragazzini e uscì per andare dal medico, tornò e lo trovò che buttava nel caminetto i berretti, le sciarpe e i guanti per intrattenere quegli strani esseri che lo guardavano pazzi di gioia. “Non sapevo più che altro fare”, le disse con un’alzata di spalle. Non sembra un film di Woody Allen? Con i musei, naturalmente, le partite dei Knicks, le poesie di Emily Dickinson rilegate in pelle e vecchie cartoline romantiche spedite dall’altro lato del parco, bottiglie di champagne tirate fuori dai sacchetti di carta marrone sulle terrazze dei grattacieli. E’ la modalità Woody Allen, con pomeriggi trascorsi sui gradini del Metropolitan Museum a guardare la gente che entra e esce, e Diane Keaton la rimpiange ancora. Adesso che Dylan Farrow, la figlia che lotta per vedere affibbiata al padre adottivo l’etichetta di mostro, interpella pubblicamente Diane Keaton sul New York Times, urlandole via lettera: “E tu, Diane Keaton? Mi conosci da quando ero piccola, ti sei dimenticata di me?”, Diane Keaton ha probabilmente da opporle soltanto quella frase che ha scritto in una autobiografia recente (“Oggi come allora”, Mondadori), e la frase è: “Che devo fare? Io lo amo ancora”. Si innamorò di lui nel 1969, lavorandoci insieme, anzi era innamorata di lui da molto prima (come Mia Farrow), e non ha più smesso di amare “il maestro del ridimensionamento”, che non va a ritirare i premi e non va alle prime dei suoi film, e che una mattina aprì il New York Times e lesse in prima pagina: “Io e Annie ha vinto l’Oscar come miglior film”. Chiuse il giornale e tornò a lavorare alla sceneggiatura di “Interiors”. “Woody mi manca. Se sapesse quanto bene gli voglio, scapperebbe via spaventato”, scrive Diane Keaton, “Sono abbastanza intelligente da non affrontare questo argomento. So che è quasi disgustato dalla natura grottesca del mio affetto”. Quando Mia Farrow trasferì il suo sapone, il suo shampoo e la sua spazzola (è possibile che un’attrice bionda si accontenti di questi tre oggetti?) a casa di Woody Allen, ci trovò lo shampoo, la spazzola e il sapone di Diane Keaton. Oltre a un ordine assoluto, nessuna statuetta, nessuna recensione dei suoi film (“Il concetto stesso di premi e tributi di stima è un’idiozia”) e molti, molti medici. Woody Allen ha un medico per ogni parte del corpo (di solito medici tradizionali, ma talvolta ha dei cedimenti verso gli agopuntori) e considera piuttosto seriamente le labbra screpolate come un sintomo di tumore al cervello: si porta dietro i numeri di casa dei suoi specialisti, tiene sempre in tasca una scatolina d’argento piena di pillole, e quando esce un suo nuovo film (cioè ogni anno) organizza una proiezione privata per i suoi medici e le loro mogli. La proiezione dei dottori, la chiamano, e la sala è sempre gremita. In un articolo per il New York Times sull’ipocondria, Woody Allen ha scritto che durante il tragitto a piedi verso uno Starbucks spesso non resiste alla tentazione di deviare per chiedere un elettrocardiogramma veloce, anzi meglio una Tac. E una notte in cui si svegliò con un evidente melanoma sul collo, non riuscì a calmarsi fino a quando, al pronto soccorso, un infermiere lo guardò e gli disse: “Il suo succhiotto è benigno”. Non importa che non sia vero, perché il realismo è l’impossibile, e Woody Allen, che nemmeno dalle sue mogli, fidanzate, figlie, si lascia chiamare con il vero nome, Allan (Allan Konigsberg) ha saputo mescolare e legare stretta la sua vita al suo talento, tanto che adesso quella vecchia battuta, “Conosciamo l’etica dei politici: è una tacca più sotto di quella del molestatore di bambini”, può essere interpretata soggettivamente, in base alle proprie convinzioni: un’ammissione inconscia di colpevolezza, il disgusto di sé, oppure semplicemente una battuta di Woody Allen.

    “Hannah e le sue sorelle” saccheggia la vita di Mia e delle sue sorelle, e racconta probabilmente anche la relazione che Woody Allen ebbe con Steffi, una delle sorelle di Mia, ed è girato in casa di Mia: la sua cucina, le sue pentole, i suoi figli che recitano le battute, la sua stanza, la sua tivù, lei sul suo letto che bacia Michael Caine mentre Woody Allen la guarda e le chiede di non recitare “come in una soap opera”. C’è di che impazzire. Ma questa è l’essenza di Woody Allen, prendere una cosa privatissima e farla diventare universale. Prendere un’ipocondria e farla diventare l’ipocondria di tutti. O un’ombra, un comportamento meschino, e farci ridere di quel comportamento che rispecchia i nostri – anche se non viviamo a Manhattan e non indossiamo tutto il tempo giacche di tweed – e assolvere (o condannare) la nostra infelicità, i nostri errori, salvarli o ucciderli con una battuta. Come in “Crimini e Misfatti”, quando Mia Farrow restituisce a Woody Allen un’appassionata lettera d’amore che lui le ha scritto, e gliela restituisce perché si è fidanzata con un altro, il suo peggior nemico, e quello dovrebbe essere quindi un momento molto doloroso e umiliante, ma Woody Allen dice, riprendendo in mano la lettera: “Ma forse fa lo stesso. L’avevo copiata quasi tutta da James Joyce. Non ti eri chiesta il perché di tutti quei riferimenti a Dublino?”. E’ la sdrammatizzazione, il ridimensionamento di ogni errore, di tutte le figuracce e di tutti i fallimenti. “Io non mi intendo di suicidi. Quando sono cresciuto, a Brooklyn, mai nessuno che si suicidasse: erano tutti troppo infelici”.

    Dentro le nevrosi di Woody Allen e dentro i suoi film sembra che non ci sia niente che possa fare davvero male. In fondo, la scelta è soltanto nostra: soffrirci oppure no, pentirci oppure no, ma anche quando soffriamo, o quando soffre Cate Blanchett, la protagonista di “Blue Jasmine”, è come se soffrisse dietro un vetro. A noi la decisione se soffrire con lei o guardarla dall’alto mentre cade così in basso. E’ la libertà massima: di prendere pasticche, non prenderle, andare dallo psicanalista tre volte al giorno o coltivare l’orto in campagna, scandalizzarsi oppure no, stare insieme ma non dormire insieme, mettere Central Park fra le rispettive case, sopportare una tribù di ragazzini un pomeriggio la settimana o trovare il senso della vita nell’adozione compulsiva, cominciare a notare la minigonna della ragazzina vietnamita che Woody Allen conosceva da quando aveva otto anni e che lo odiava perché era brutto e vecchio. C’è molto di terribile nella mazzetta di foto di Soon-Yi nuda e con le gambe divaricate che Mia Farrow trovò per caso sulla mensola del caminetto nel salotto di Woody, abbandonate lì come in un film o come in una confessione freudiana. Ma è difficile non sorridere alla scena, raccontata da Mia Farrow, di Woody Allen che supplica Mia di non dirlo al suo ex marito, André Previn (nonché padre adottivo di Soon-Yi): lei alza il ricevitore e dice: “André, Woody si è scopato Soon-Yi”, e Woody si getta sul pavimento e comincia a rotolarcisi sopra gemendo “Oh che cosa umiliante, oh il mio stomaco, aaah, aaah” (“Cos’è questo rumore?”, chiese André, “Niente, è Woody che si rotola sul pavimento”). Finora Woody Allen ha detto poche cose al riguardo, dieci anni fa scrisse in una proposta di autobiografia che il capitolo Mia è stato una delle storie più oltraggiose e esilaranti mai accadute,“alcuni anni di pandemonio con cause in tribunale, battaglie per la custodia, esperienze bizzarre con psichiatri di ogni tipo, detective privati, cimici nei telefoni. Fui accusato da un testimone oculare che si trovava a centinaia di miglia dal Connecticut in cui diceva di essere”. Ma il maestro del ridimensionamento, come lo chiama Diane Keaton con amore, forse riuscirà a ridimensionare anche un simile processo morale (quello giuridico non è mai stato formalizzato, i medici allora dissero che la bambina non era stata violentata, il giudice decise di non procedere e Woody Allen non vide mai più né suo figlio naturale, che l’ha odiato fin da quando era nel lettino e lo prendeva a calci in faccia, né Dylan, la figlia adottiva. L’altro figlio, Moses, è stato in guerra con il padre per anni, poi si è riavvicinato, ha deciso che era tutta colpa di Mia Farrow e del suo odio per Woody e Soon-Yi). Lui, che voleva intentare cause a chiunque, amici che non gli restituivano soldi, diffamatori, mitomani, truffatori, e stava ore al telefono con gli avvocati (una volta Mia Farrow gli disse che aveva “la causa facile”, lui la corresse: “Si dice litigioso”), adesso deve trovare nuove battute, nuove parole adatte ai suoi settantotto anni e all’enormità di questo fallimento famigliare, battute adatte alla grandezza dell’odio che ha provocato.

    Sperava che la vita potesse andare sempre come sul set di “Radio Days”: “Mia è un’attrice straordinaria e ha un carattere d’oro. Viene sul set e se ne sta tranquilla a fare il punto croce, poi si mette la parrucca e gli occhiali neri, o quant’altro, urla le sue battute e ti pianta un coltello nel naso – e poi si rimette a cucire circondata dai suoi orfanelli”. Le cose poi sono cambiate e i suoi orfanelli sono cresciuti, proprio come in un film di Woody Allen.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.