Un leader tra intelligenza (molta) e politica (appena un po' meno)
C’è attesa per il nuovo libro di Giulio Tremonti. L’autore rappresenta un caso raro di vero intellettuale diventato (quasi fino in fondo) vero politico. Ha il dono di non dire sciocchezze tipo le tante proposte da album Panini che vengono sistematicamente rifilate da qualche novissimo innovatore. E non racconta neppure banalità come quelle dei politici improvvisatisi pensatori che dietro a ogni loro riga fanno intravedere ghost writer annoiati, o dei cosiddetti tecnici buttati – da altri – in politica.
C’è attesa per il nuovo libro di Giulio Tremonti. L’autore rappresenta un caso raro di vero intellettuale diventato (quasi fino in fondo) vero politico. Ha il dono di non dire sciocchezze tipo le tante proposte da album Panini che vengono sistematicamente rifilate da qualche novissimo innovatore. E non racconta neppure banalità come quelle dei politici improvvisatisi pensatori che dietro a ogni loro riga fanno intravedere ghost writer annoiati, o dei cosiddetti tecnici buttati – da altri – in politica. I suoi ragionamenti sono rigorosi senza essere imbalsamati come quelli dei pochi politici con solida formazione intellettuale che non essendo riusciti a lasciare la Prima Repubblica si sono trasformati in classici esemplari di morti che afferrano il vivo. Nei suoi libri si riscontra il lavoro di una mente fresca che guarda senza scemenze reverenziali (tipo quelle delle nostre mummie eurofanatiche) al contesto internazionale, sa leggere in modo non ideologico le trasformazioni economiche e inquadra la riflessione sul nostro paese in tali contesti evitando così l’effetto “Ballarò” di tanta italica pubblicistica sulla politica, pure spesso firmata da intellettuali di qualche – più o meno meritata – fama.
Leggendo l’introduzione a “Populismo” (se questo sarà il titolo) colgo con soddisfazione una sintonia con analisi che da tempo vado svolgendo, così anche nel dialogo con Giulio Sapelli recentemente pubblicato dal Foglio: la comparazione con il Cinquecento, l’idea del periodo 1992-2014 come una fase alla Weimar (anche se oggi lo penso più simile alla Yugoslavia post titina quando non c’è più la guerra civile europea ma comunque lo stato si disgrega per le contraddizioni di una Costituzione resa obsoleta dal contesto internazionale) la largamente condivisibile critica alle nostre élite incapaci di svolgere una funzione per il proprio paese, la questione della sovranità nazionale come centrale per un’Italia non colonizzata, la dura critica ai più stupidi europeisti e fan della globalizzazione con le loro esaltazioni di redenzioni da “vincolo esterno”, e l’affrontare i processi economici nella loro complessità politico-antropologica e non solo con l’applicazione di schemini ideologisticamente definiti: siano essi ora non più keynesiani – questi ultimi però erano all’inizio ben storicamente radicati – o marxisti ma anche liberistici. Tutti punti di vista che mi pare di condividere in buona misura con Tremonti.
Non posso nascondere però che in diverse occasioni ho espresso critiche a comportamenti politici, alla fine non secondari, dell’ex ministro dell’Economia: per citare il dialogo con Sapelli lo – pur paradossalmente – paragoniamo (e sono io il principale responsabile di questo approccio) a un Clemente VII che si accorge troppo tardi dell’espansione egemonica di Carlo V e non riesce – certo non solo per suo demerito – a organizzare una seria alleanza per contenerla.
Tremonti osserva che siamo in una fase di incerti equilibri internazionali e dunque il diritto deve spesso cedere alla forza (per noi fortunatamente ancora una “forza” finanziaria non così invece in medio oriente e tendenzialmente anche nell’“europea” Ucraina) e l’analisi dunque deve concentrarsi sui rapporti di forza. L’ex ministro ricorda bene in questo senso le degenerazioni della finanza globale e le manovre contro l’Italia che lui, al contrario di altri nel centrodestra, colse per tempo. Forse però serviva concentrarsi anche sui “movimenti della storia” più visibili e sui quali intervenire a prescindere dai “lati oscuri”. Nell’estate del 2009 le mosse di americani e tedeschi apparivano ben leggibili. Nella primavera del 2010 lo sbandamento francese (specie dopo il caso Tunisia) era netto. E in questo senso forse non era necessario conoscere gli abboccamenti di Nicolas Sarkozy-Francesco I con Angela Merkel-Carlo V per aprirsi (curando meglio i rapporti con Parigi) nuovi spazi di azione. Sempre ragionando sui rapporti di forza, un odierno Clemente VII, probabilmente, avrebbe dovuto favorire un’apertura verso Washington magari trattando con più flessibilità un Mario Draghi, pur talvolta arrogante, strategico per gli americani.
Nell’introduzione tremontiana sulla situazione italiana, poi, che pure in larga parte condivido, ci si imbatte nella formula dei due colpi di Stato, comprensibile dal punto di vista propagandistico ma in parte storicamente imprecisa: infatti un colpo di Stato è diverso dai nostri colpi di “non Stato”, e se non ne analizzi la diversità (e quindi le alleanze e gli obiettivi per affrontarli) e ti limiti alla denuncia, sarei sempre perdente. Questa tendenza a far prevalere la denuncia sull’analisi (mi pare di coglierla anche nel pur brillantissimo accenno al nuovo lavoro) è uno dei limiti di un ottimo intellettuale che per cercare la verità deve estremizzare il pensiero, e così non riesce ancora a essere un completo politico che oltre a indicare i rischi deve – per trovare forza, alleanze e consenso adeguati – indicare anche le opportunità.
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