L'incredibile storia del Balthus censurato e della sua giovane modella

Marianna Rizzini

La notizia è apparsa qualche giorno fa su Libération e molti lettori, trasecolando, hanno subito gridato via e-mail alla “pruderie ipocrita”: era successo che a Essen, in Germania, Tobia Bezzola, direttore del museo Folkwang, aveva annullato per “sospetta pedofilia”, a due mesi dall’inaugurazione, una mostra firmata Balthus.

    La notizia è apparsa qualche giorno fa su Libération e molti lettori, trasecolando, hanno subito gridato via e-mail alla “pruderie ipocrita”: era successo che a Essen, in Germania, Tobia Bezzola, direttore del museo Folkwang, aveva annullato per “sospetta pedofilia”, a due mesi dall’inaugurazione, una mostra firmata Balthus. Mostra di polaroid che ritraggono una giovane modella negli anni in cui il pittore, ormai ottantenne, cominciava a sentire la fatica del disegno a matita per gli studi preliminari dei suoi dipinti: lui che in vecchiaia si era nascosto al mondo, rifugiandosi nel settecentesco chalet svizzero di Rossinière con la seconda moglie giapponese, scopriva il progresso sotto forma di macchina fotografica, il terzo braccio che poteva accompagnarlo nel viaggio minuzioso e a volte disordinato di avvicinamento all’opera che aveva in mente (scatto dopo scatto, fino a che la visione preesistente non si incarnava nella realtà, con non poche difficoltà di comprensione tecnica di quella macchinetta che sputava foto in un baleno, come racconta la sua ultima modella Anna Wahli nel testo autobiografico esposto alla galleria Gagosian di New York tra il settembre e il dicembre del 2013, in occasione della mostra di polaroid “Balthus, the last studies”, raccolta di studi preparatori che parlano del pittore, del suo metodo di lavoro e del suo rapporto con Anna, la bambina che dagli otto ai sedici anni, dal 1990 in poi, ogni mercoledì, con il consenso dei genitori, volontariamente, andava nel suo studio per posare). “Abbiamo preferito evitare conseguenze giuridiche”, ha detto Bezzola, dopo essersi consultato con i servizi per la protezione dell’infanzia della città di Essen, facendo capire di non aver voluto correre il rischio della chiusura della mostra dopo le accuse preventive giunte a dicembre a mezzo stampa, con un articolo-invettiva sulla Zeit. “Testimonianze di avidità pedofila”, aveva scritto infatti Hanno Rauterberg a proposito della serie di polaroid di Balthus in quel momento esposte a New York. “Anche nei suoi dipinti”, scrive Rauterberg, Balthus lascia trasparire “un amore palese” per le ragazze “precoci”, dipinte “in pose lascive”. Ma mentre il dipinto ha qualcosa di “allegorico” o “surreale”, nella foto l’immagine della “lussuria” è “immediata”. Dove passa il confine tra arte e istigazione “all’abuso”?, si chiedeva dunque la Zeit, e fino a dove può spingersi la “libertà artistica” in un’epoca in cui è “diventato tabù” ciò che fino a poco tempo fa non lo era, e in cui “alcune compagnie aeree vietano che i bambini viaggino da soli seduti accanto a un passeggero di sesso maschile”, mentre a Zurigo “il Babbo Natale finto, nelle piazze, non può far sedere alcun pargolo in grembo”, onde evitare anche la più remota possibilità di immaginare una molestia? All’artista, fino a poco tempo fa, si permetteva di essere diverso, scrive Die Zeit: “Insaziabile, incurante dell’ordine borghese”. Ma oggi un’istituzione culturale non può voler “guadagnare” sul “voyeurismo generale”. Motivo per cui un museo, era la conclusione, non può “sfruttare” l’immagine di una giovane modella. Dunque si è arrivati non alla censura (non ancora, almeno) ma all’autocensura. Nel frattempo, a New York, i critici si sono interrogati sul tema, sia a proposito della mostra Gagosian sia a proposito di quella contemporanea al Metropolitan: sempre una personale di Balthus, il Balthus più conosciuto che ritrae su tela “Gatti e ragazze” (titolo della retrospettiva).

    Il New Yorker, a firma Peter Schjeldahl, il 7 ottobre scrive che la mostra arriva in “un’epoca culturale” sempre tesa tra “sessualizzazione del giovanissimi” e “reazione di rabbia e orrore di fronte ai recenti abbondanti casi di sfruttamento sessuale dei medesimi”. Se puoi disfarti di questa sensazione al Metropolitan, scrive Schjeldahl, tanto di cappello, “ma io non ci sono riuscito: Balthus mi precipita in due stati mentali – attrazione e repulsione, in cerca di una terza possibilità”, perché tende al limite “l’impunità morale dell’arte più alta”, assicurandosi “un’immortalità inquieta”. (In Italia intanto si pubblicano sondaggi sul tema del sesso tra adulti e adolescenti: il 10 febbraio, sul Corriere della Sera, uno studio Ipsos per Save the Children indica che per il 38 per cento degli adulti intervistati sono “accettabili” i rapporti “virtuali o fisici” tra un adulto e un/una teenager, e che un intervistato su dieci pensa che sia il giovane a fare il primo passo).

    Quando qualcuno esprimeva inquietudine di fronte ai dipinti in cui una giovanissima ragazza o bambina in età prepuberale era ritratta in un attimo di turbamento (giocoso o pensoso), Balthus rispondeva che l’erotismo percepito era un’attribuzione ex post delle menti torbide. Rifiutava l’accostamento a Vladimir Nabokov, e molto si adirò quando, sulla copertina di un “Lolita” edizione Penguin, comparve il suo quadro “Girl with a cat”. Al funerale di Balthus, nel 2001, alla presenza dell’ex presidente francese Jacques Chirac, Bono Vox cantò per centinaia di amici e conoscenti vip non ancora sfiorati dal pensiero che l’arte di Balthus potesse un giorno provocare l’autocensura di un museo. Balthus era per tutti un cantore anche audace, ma pur sempre cantore, dell’adolescenza, uno che sicuramente non poteva fare a meno delle sue giovani muse (ne sposò una, Antoinette, madre dei suoi figli – che però al momento del matrimonio era ormai grande). Un artista cresciuto con artisti, vissuto negli anni Venti e Trenta in mezzo a scrittori e intellettuali, con una madre amica e amante di Rainer Maria Rilke: arte e vita erano vasi comunicanti, sì, ma non fotocopie l’una dell’altra (l’articolo accusatore sulla Zeit a un certo punto si chiede come si possa fare per distinguere chiaramente l’arte dalle azioni dell’artista nel mondo: finché è tutta immaginazione si può accettare, ma “che cosa succede” se una legge “violata dall’arte viene violata anche nella vita reale”?).

    L’ex modella Anna, negli appunti esposti su un pannello alla mostra di New York, scrive che Balthus aveva bisogno di osservarla “per immergersi in un’atmosfera contemplativa e per essere in grado di comporre un’immagine mentale”. E scrive anche, con naturalezza, che era come se molto, all’interno del processo di creazione artistica, “dipendesse” dalla sua presenza (un “processo democratico”, scrive su Vanity Fair Ingrid Sischy il primo ottobre del 2013, notando che la “ragazza appariva in qualche modo come una specie di boss”). La figlia di Balthus, poi, racconta sempre Sischy, ricorda l’anziano pittore rapito dalla telenovela preferita di Anna (“The Bold and the Beautiful”): la guardavano insieme, e Balthus si sottoponeva a quel “supplizio” con leggerezza, come fosse parte della complicità necessaria al viaggio verso il lavoro finale.

    L’opera di Balthus, e i suoi ritratti di adolescenti, erano già stati, in passato, sezionati alla luce del possibile “scandalo”, ma ne erano sempre usciti. La malizia è in chi la vede, diceva Balthus quando qualcuno gli faceva notare che alcuni dipinti raffiguranti Thérèse, modella (undicenne) prediletta dei suoi anni d’oro, potessero suscitare disagio, fastidio in chi guardava –Thérèse appariva assorta, mai sorridente, attraversata e sconvolta dai primi sogni, forse dalle prime passioni astratte, a volte anche provocante, forse inconsapevolmente forse no. E però non era ancora il tempo della caccia alla strega pedofila.

    Una manciata di anni, e cambia la sfumatura: “Arte e pedofilia”, scrive Natalia Aspesi su Repubblica, nel 2009, “si sono spesso intrecciate, suscitando più che altro dibattiti fumosi e, nel dubbio, si è sempre preferito pensare che se l’artista era devoto alle adolescenti o addirittura alle bambine, era esclusivamente per ragioni intellettuali. Lewis Carrol fotografava piccine con camiciole discinte solo, secondo i suoi estimatori, per immortalarne l’innocenza, Balthus dipingeva bambine con le gambette spalancate, per pura passione grafica e senza un solo pensiero cattivo, Chaplin magari era più sincero, chiedeva alle mamme di certe decenni simili ad angeli di riportargliele qualche anno dopo, non si sa mai, potevano diventare dive”.

    Un’immagine artistica è una porta socchiusa su un mondo e uno specchio dell’occhio di chi guarda. Ma capita che l’occhio, in quello specchio, veda il riflesso di un fantasma: proprio o altrui, fantasma del passato o fantasma di quello che per lo spirito dell’epoca è un nemico inconoscibile e aleatorio, pervasivo anche nella fantasia, un’ombra col cappello che cammina lungo i muri della città come “M”, il mostro di Düsseldorf del film di Fritz Lang. E oggi il nemico nell’ombra, nascosto dietro ogni contatto, scambio o relazione inter-generazionale, di qualsiasi genere, è il Pedofilo, creatura malefica multiforme che, non sempre su base di realtà, si affaccia alla mente come pericolo potenziale, e proprio nel secolo in cui l’adolescenza è sessualizzata nei modi e nelle mode, ma il rapporto con quelli che un tempo erano “i vecchi” (o anche semplicemente adulti) appare perduto o irregimentato (per paura? per noia? perché non c’è più tempo per una dimensione sospesa, per anni sospesi tra infanzia e giovinezza?). Per non correre pericoli o per scaricarsi la coscienza (tutto è concesso, ma tutto è sospetto), non è possibile, oggi, alcuna forma di paidèia per com’era intesa nel mondo classico: diffusione di sapere ed esperienza trasmessi anche attraverso la fascinazione adulto-giovane, fascinazione prima di tutto mentale e a volte anche in qualche modo fisica, non necessariamente sessuale, spesso sublimata, quasi sempre ambigua com’è ambiguo e non indolore il passaggio della linea d’ombra per un ex bambino che non è ancora un “grande”. Ed è nella terra di confine tra autosuggestione, cronaca, superstizione, moralismo in buona fede, moralismo in mala fede e senso di colpa che può collocarsi una storia (incredibile) di autocensura preventiva come quella successa in Germania qualche giorno fa. Dove non c’è neppure un “caso” anche giudiziario controverso (caso Polanski? caso Allen?).
     

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.