Ave Tevere, lercio e divino

Stefano Di Michele

Poi, quando l’acqua si ritira, e i piccoli alberi ai lati del fiume tornano alla luce, ecco lo scenario allucinato che per mesi e mesi perdura – come micidiale colesterolo nelle vene che alimentano la città: sui rami un susseguirsi di addobbi osceni di buste di plastica, stracci, immondizia varia. Salgono fin lassù, al posto degli uccelli – con l’acqua, e lassù restano a seccare, a sfarinarsi – sotto il sole. Il biondo Tevere oscilla verso il grigio-marrone, e satollo di ciò che dentro il suo corpo (quasi sempre) placido la disattenzione e la maleducazione gettano, vomita sulle sue stesse rive per non soffocare del tutto.

    “Roma, ultimo e unico monumento di Roma, / Roma che hai vinto soltanto la città di Roma, / solo il Tevere che al mare fluisce / resta di Roma” (Ezra Pound)

    Poi, quando l’acqua si ritira, e i piccoli alberi ai lati del fiume tornano alla luce, ecco lo scenario allucinato che per mesi e mesi perdura – come micidiale colesterolo nelle vene che alimentano la città: sui rami un susseguirsi di addobbi osceni di buste di plastica, stracci, immondizia varia. Salgono fin lassù, al posto degli uccelli – con l’acqua, e lassù restano a seccare, a sfarinarsi – sotto il sole. Il biondo Tevere oscilla verso il grigio-marrone, e satollo di ciò che dentro il suo corpo (quasi sempre) placido la disattenzione e la maleducazione gettano, vomita sulle sue stesse rive per non soffocare del tutto. Nelle settimane della Grande Pioggia romana – quando interi quartieri sono finiti sott’acqua – si affollava la gente lungo i muraglioni, lassù in alto: a rimirare, a sfanculare, a fotografare, e ancora come secoli fa a tenere lo sguardo puntato sull’occhialone di Ponte Sisto: che se l’acqua lì arriva, meglio cominciare a correre. Peggio, certe volte peggio, della maledizioni delle cavallette che quattro secoli fa, quasi come piaga biblica, a dar retta a certe storie, colpì le campagne intorno, e Papa Innocenzo X “le scomunicò et maledisse”, e pure tre vescovi appositi mandò “a scomunicarle et maledirle et a comandare che se ne andassero al mare per il Tevere”. E quelle andarono, scomunicate e maledette, seguendo il corso del fiume, da supporre santamente condotto, “et fu cosa meravigliosa”, fu scritto, vedere il fiume farsi nero delle fastidiose bestie che prendevano il largo verso Ostia. Meglio le cavallette di ciò che il Tevere adesso deve vomitare, quando gonfia d’acque la sua pancia – e né scomunica di Papa e né scomunica sociale valgono a preservarne integrità se non santità, ché altro che la temuta e sopravvalutata, nel caso, Cloaca Massima.

    Anni fa, su un palco del teatro Sistina (era la commedia “I 7 re di Roma”), se ne stava Gigi Proietti, grondante acqua e cocci e conchiglie, tale e quale (più o meno) come immaginato nell’“Eneide”, tale e quale (più o meno) come la statua che si trova nel Louvre: “Sono Tiberino, fratello di Fonto, dio delle sorgenti, figlio di Giano e di Giuturna, signora delle acque, per cui so’ tutto zuppo… Qui, sulla riva der fiume, che poi sarei io…” – per poi intonare: “Prima de Roma ce stavo giàààààà…”. O magari era Tiberino solo quel re latino, che lì nel fiume si affogò – suicida che manco una sartina di Testaccio. E senza Tevere chissà Roma dove sarebbe stata – a quale (ir)rilevanza condannata: che né Enea il corso avrebbe risalito né la cesta con Romolo e Remo si sarebbe depositata vicino alle zampe amorevoli della lupa. Re e imperatori e papi a smanettare, arginare, abbandonare – che come la monnezza attuale, dicono poi le cronache, carcasse di animali e di cristiani sempre abbondavano nelle sue acque. Pure il duce, a farsi insieme imperiale e di paese, andò a scomodare le sorgenti del sacro corso dalle parti del monte Fumaiolo, così da sistemarle nella natìa zona forlivese – a render umidi e divini pure i natali del fascio, e apposita colonna di travertino fu posta a guardia dei suoi 405 chilometri di romana sacralità: “Qui nasce il fiume sacro ai destini di Roma”. Glu-glu-glu-eia-eia-alalà! E sull’ardito e virile corso d’acqua vennero nel 1929 convenientemente trascinati (ultimo grande trasporto del genere) i blocchi di marmo che servivano per il Foro Italico.

    Certe volte pare cattivo, il Tevere – “fiume bojaccia” che s’ingoia la Ninetta bella del lamentoso barcarolo canterino. Quasi sempre però se ne sta placido e indolente come da repertorio canzonettistico – “lì sotto l’arberi de Lungotevere / le coppie fileno i baci scrocchieno”, bordeggiato da ciclisti pedalanti, ginnasti volenterosi, punkabbestia grintosi, cani dall’aria mite e dolente, barboni scarnificati, romeni ubriachi, spacciatori avidi, tutti lesti a risalire sopra i muraglioni quando l’acqua comincia a salire, sale sui marciapiedi, copre i gradini, e persino i bellissimi germani reali non trovano più dove poggiarsi. E si corrono a mettere i sacchi in difesa dell’ospedale Fatebenefratelli, su quell’isola Tiberina a forma di naviglio, “insula inter duos pontes”, che si vorrebbe sorta dall’ammasso dei covoni di grano, mischiati alle pietre, che in segno di disprezzo i romani gettarono nel Tevere dopo aver cacciato l’ultimo re, Tarquinio il Superbo – a motivo che il nome basta e avanza. E lì che veniva festeggiato il Pater Tiberinus l’8 dicembre, lì si arrampicò un serpente in giorni di pestilenza, lì perciò Esculapio, lì dunque l’ospedale, ecc. ecc. – salubri acque, che su certe monete di Antonino Pio con spirito internazionalista si stringono le mani con quelle del Nilo. E siccome, tanto a dar credito alle leggende quanto a dar retta alla storia, di certo fu il Tevere a eruttare e concimare Roma, ogni viaggiatore dei secoli passati che veniva a rimirare Colosseo e Fori un pensiero grato e mistico gli rivolgeva. Anche Goethe quando arrivò da queste parti, nelle sue acque volle bagnarsi – con meno temerarietà, si presume, di quella oggi necessaria. Perché una volta, davvero chiare e fresche e dolci acque dovevano essere – se Raffaello, sostiene il Vasari, mica da tutti creduto, vide per la prima volta la sua Fornarina fare lì il bagno nuda e appetitosa; e se Papa Urbano VIII a metà del Seicento (si legge ne “Le curiosità di Roma” di Willy Pocino) disponeva e vietava di andare “a notare o lavarsi al fiume senza mutande, et che le donne non vadano a sollazzo in barca per esso fiume” – pur con le mutande appresso.

    Che hai voglia a rendere sacre le sponde: spesso, le sponde del Tevere più che sacre risultavano complici. “I baci scrocchieno”, appunto. E fossero solo i baci. Era (è) tutto un rimorchiare, un infrattarsi, un frettoloso darsi e fuggire. Peccaminoso fiume – come ogni argine di fiume che si rispetti (a stare alla poesia, ai romanzi, alla pratica). E perciò, amatissime erano quelle sponde da Sandro Penna, poeta sublime e incallito procacciatore di ragazzotti/garzoni/bagnanti (era Penna, ha scritto, malizioso e ammirato Cesare Garboli, “la poesia stessa, la quale, nella sua infinita imprevedibilità, aveva deciso un giorno di nascondersi in quel grigio e saturnino pederasta di vecchio stampo, indolente, noioso, lamentoso, privo d’interessi culturali, ignaro di qualsiasi ideale, e logorroico come tutti gli omosessuali”). “Mio romantico amico fiume lento”, lo chiamava il poeta, e frequentava i suoi barconi, poi infilandosi tra “la macchia e le boscaglie infestate dai suoi divini fanciulli”. Scriveva (in “Un po’ di febbre”): “Il mormorio del fiume è certo più bello di quello delle grandi fontane di San Pietro. E’ quella cosa uguale in tutto il mondo dal principio del mondo, e come riuscirà poi ogni volta a commuovere non si può dire”. E lo stesso (quasi lo stesso) Pier Paolo Pasolini – che poi nei suoi romanzi i suoi “Ragazzi di vita” farà vivere e morire sul bordo del grande fiume (il Tevere, ma pure l’Aniene), sul mitico barcone der Ciriola, da anni scomparso. “Dal Cupolone, dietro Ponte Sisto, all’Isola Tiberina dietro Ponte Garibaldi, l’aria era tesa come la pelle di un tamburo. In quel silenzio, tra i muraglioni che al calore del sole puzzavano come pisciatoi, il Tevere scorreva giallo come se lo spingessero i rifiuti di cui veniva giù pieno (…) Poi vennero i trasteverini, giù da Ponte Sisto, in lunghe file, mezzi ignudi, urlando e ridendo, sempre in campana per menare qualcuno. Il Ciriola si empì, fuori, sulla spiaggetta sporca e, dentro, negli spogliatoi, nel bare, nello zatterone. Era un verminaio…”. E il Riccetto che nell’acqua si butta, per salvare una rondine che stava per affogare – il gesto d’umanità che lo stesso non lo salverà. E a volte racconta, Paolo Poli – sempre a proposito di dissacrata sacralità del sacro fiume – di quando faceva compagnia ad Alberto Moravia già in età avanzata, e dal terrazzo della sua casa sul Lungotevere osservavano col cannocchiale le povere puttane che lì sotto s’infrattavano con i loro clienti. E lo scrittore che diceva all’attore: “Poverina , guarda che mostro… Paolo, vai giù a chiedere a quella quanto l’ha pagata il cliente…”. E Paolo, gentile e sfrontato come sempre, andava.

    Ma ben altro ingoia (con volgarissimo gioco di parole) il Tevere. Cadaveri, sempre. Carcasse. Misteri. Resti che mai saranno decifrati. Si affollano, gli articoli di cronaca nera, intorno al fiume, come i germani reali quando prendono il sole sui suoi argini. Un giorno si butta qualcuno, un altro un padre disgraziato getta lì dentro il suo innocente bambino. Tra leggenda e storia. Ingoiò il Tevere (e qui è leggenda) la carrozza di Donna Olimpia Maidalchini, la potentissima cognata di Innocenzo X, trascinata all’inferno da diavoli e streghe. E ingoiò nel febbraio dell’837 (e qui è storia) il cadavere di Papa Formoso, che il suo irato successore Stefano VI fece riesumare, rivestire degli abiti pontifici, porre sul trono e processare a San Giovanni in Laterano. “I paramenti furono strappati di dosso alla mummia; le tre dita della mano destra, con cui i Latini impartiscono la benedizione, furono recise e con urla selvagge il cadavere fu trascinato via dalla sala, attraverso le strade di Roma e gettato infine nel Tevere tra le grida di una folla immensa”, è il resoconto di Ferdinand Gregorovius. E arrivò fino a Ostia, galleggiando sulle acque – il corpo mummificato e devastato del povero Formoso. Pure i pellegrini dell’anno santo del 1450 dentro le sue acque precipitarono, quando durante l’ostensione della Veronica i parapetti di Ponte Sant’Angelo crollarono e “lì vi morsero persone doicento, e tre cavalli affocati, et la ditta mula et molti ne cascarono in fiume”. Poi, subito dopo la guerra, il Tevere fu protagonista di un caso raccapricciante di linciaggio, quando la folla di parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine assaltò Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli. Prima fu messo sulle rotaie del tram, e la massa ordinò al conducente di passargli sopra. Quello si rifiutò. Gli diedero del fascista. Quello tirò fuori la tessera del Partito comunista. Allora fu scaraventato nel Tevere da Ponte Umberto. Si afferrò ai bordi. Gli schiacciarono le dita. Si lasciò andare sulle acque. Alcuni in barca lo raggiunsero, e cominciarono a colpirlo con i remi ogni volta che rimetteva la testa fuori. Il sangue riempì il fiume. Il cadavere fu tirato su a Ponte Sant’Angelo. La folla voleva altro. “Regina Coeli! Regina Coeli!”. Il corpo fu portato fino alla prigione. E lì crocifisso sul portone. Furono le telecamere di Luchino Visconti a filmare tutte le fasi del linciaggio – che non entrano mai nel documentario che il regista stava preparando.

    Fiume bojaccia, pure. Che finché non furono costruiti i muraglioni, se ne andava vagando di tanto in tanto per la città, e la inondava sotto metri e metri di acqua. L’ultima, gigantesca, poche settimane dopo l’ingresso dei bersaglieri a Porta Pia, il 28 dicembre 1870. Fu considerato da alcuni giusto sdegno divino per la profanazione della papale città. Venne pure re Vittorio Emanuele II in visita, a farsi padre della patria. Oltre 17 metri il livello normale il fiume si arrivò – fino a piazza di Spagna l’acqua sommerse, al Pantheon giunse a metà delle colonne, proprio a Ripetta a 17 metri. Ancora oggi settanta targhe, qua e là per la città, ricordano le bravate del Tevere gonfio e furente. In cinquant’anni furono fatti gli attuali muraglioni (con interventi parlamentari, e alcune diverse opinioni sull’opera, pure del senatore Giuseppe Garibaldi). Cinquant’anni, ma furono fatti: meglio della Salerno-Reggio Calabria. E ora qua e là ancora se ne va a zonzo, l’inquieto divino Tiberino – ma di solito è costretto dentro quelle mura che molto hanno mutato il volto di Roma, e molto hanno impedito che venisse continuamente sfigurato.

    Fiume un po’ matto, questo biondo Tevere. Un po’ ossigenato, forse. Ricorda ancora il professor Ceschino Montanari di una lunga conversazione, tanti anni fa, tra il pittore Corrado Cagli e il critico Emilio Villa – proprio sul fiume di Roma, sacro e perfettamente profano. Fiume, allora, quasi perfetto. “Il Tevere è un fiume ubriaco, sbanda continuamente, non sa andare dritto”, sosteneva Cagli. “Ma no, non è ubriaco, è solo parecchio fantasioso”, replicava Villa. Dà alla testa sia il vino sia la fantasia. Al Tevere, ogni tanto, pure l’acqua sua.