Serie A, il buono e il cattivo

Gilardino, l'antipersonaggio che fa la differenza, e Malesani, personaggio che ancora non ci riesce

Sandro Bocchio

Duecento reti in carriera e 170 in serie A, numeri che – apparentemente -–basterebbero per rendere gloria ad Alberto Gilardino. Eppure si ha sempre una strana impressione, quando si ragiona di lui. Come se ci si trovasse di fronte a un attaccante che ha avuto dalla carriera meno rispetto a quanto ha saputo dare. Al Genoa basta una sola punta per vivere serenamente in serie A. Il Sassuolo ne ha quattro, equamente distribuite tra l'esperienza di Floccari e Floro Flores e il futuro (preconizzato) radioso di Berardi e Zaza. Eppure in tre giornate di gol se ne è visto uno appena.

    Duecento reti in carriera e 170 in serie A, numeri che – apparentemente -–basterebbero per rendere gloria ad Alberto Gilardino. Eppure si ha sempre una strana impressione, quando si ragiona di lui. Come se ci si trovasse di fronte a un attaccante che ha avuto dalla carriera meno rispetto a quanto ha saputo dare. Perché è uno che ha sempre lasciato il segno, fin dal primo giorno. Da quando, il 5 luglio 1982, viene alla luce mentre una nazione intera sta delirando di fronte alla televisione grazie all'Italia di Enzo Bearzot: è il pomeriggio del 3-2 del Sarrià, delle tre reti di Paolo Rossi che abbattono la superbia del Brasile. E Gilardino ha fatto sempre il suo, senza mai alzare la voce, senza voler essere protagonista, senza concedersi un colpo di testa che non fosse un pericolo per il portiere avversario. Le eventuali stranezze se le riserva per il privato, se tali vogliono essere tre figlie accomunate dalla consonante iniziale del nome (Ginevra, Gemma e Giulia) e il tatuaggio di Peppa Pig sul braccio sinistro, omaggio al feticcio infantile che segna il nostro tempo. Che tipo sia Gilardino, lo si capisce nel 2004, quando va a segno 23 volte, con un girone di ritorno dal ritmo incredibile: 17 gol. Eppure non basta per convincere l'ineffabile Giovanni Trapattoni a portarlo con l'Italia all'Europeo portoghese, quello dell'eliminazione causa biscotto Svezia-Danimarca e inciso nella memoria per lo sputo di Totti a Poulsen. Una scelta accettata senza fare polemiche, come senza innalzamento di toni è stato il suo rapporto con Ancelotti al Milan, dal 2005 al 2008: Gilardino dovrebbe firmare le fortune rossonere, finisce per ritrovarsi imbullonato in panchina. Eppure avere uno come lui è una fortuna per un allenatore. Perché parliamo di un centravanti come si vedeva un tempo. Uno che si lancia in area per prendere e dare botte, uno che si sacrifica e che, quando può, punisce la distrazione altrui. Uno al servizio della squadra e non delle fortune personali. Basti pensare a due immagini del Mondiale vinto in Germania nel 2006. Contro la Repubblica Ceca, ultimo match del girone eliminatorio, Inzaghi scatta in contropiede nel finale, dietro lui corre Barone: impossibile pensare che gli passi palla, e così è per il 2-0 azzurro. Pochi giorni dopo, identica situazione nella semifinale contro la Germania. Stavolta fugge Gilardino, dietro lui c'è Del Piero che, invece, riceve palla per il 2-0. Situazioni identiche per finali differenti, che raccontano una storia intera. Perché Gilardino non è cambiato per nulla, antipersonaggio fino alla noia ma che in campo fa la differenza. Lo avevano capito a Bologna un anno fa, dove non hanno però avuto la forza economica per confermarlo. Lo stanno capendo al Genoa adesso, dopo averlo posto ancora una volta in mille trattative di mercato, in estate come a gennaio: Gian Piero Gasperini è stato ben felice di averlo ancora avuto con sé per mancanza di acquirenti. Potrebbe capirlo anche Cesare Prandelli in chiave Brasile, visto che Mario Balotelli - al contrario di ciò di cui è convinto il ct - sta dimostrando tutto tranne di essere una prima punta. Servono coraggio e sacrificio per questo ruolo, ciò che Gilardino ha. E che potrebbe ancora mettere al servizio delle fortune azzurre.

    Al Genoa basta una sola punta per vivere serenamente in serie A. Il Sassuolo ne ha quattro, equamente distribuite tra l'esperienza di Floccari e Floro Flores e il futuro (preconizzato) radioso di Berardi e Zaza. Eppure in tre giornate di gol se ne è visto uno appena. Tre giornate da quando, in panchina, è arrivato Alberto Malesani. Sarà solo una coincidenza, per carità. E si dovrà tenere conto di aver giocato con Verona, Inter e Napoli, per reiterata carità. Però il nuovo allenatore è finora soltanto riuscito nell'impresa di passare dalla terz'ultima all'ultima posizione, lasciato dietro anche dal Catania. Il lavoro di Malesani è soltanto agli inizi, ancor più tenendo conto di una squadra in cui sono arrivati ben dodici giocatori nuovi al mercato di gennaio: già è difficile farli sembrare un corpo unico dopo averli avuti a disposizione per un'estate intera, figurarsi quando occorre metterli insieme a campionato in corso. Giudizio quindi negativo ma attenuato dal beneficio del dubbio. Basta che questo non attraversi la mente del patron Giorgio Squinzi, numero uno di Confindustria. Lui, al momento di cacciare Di Francesco, aveva inseguito una soluzione dirompente, insistendo con il Milan per avere Filippo Inzaghi. Di fronte al rifiuto rossonero, si era risolto a seguire la soluzione classica proposta dai collaboratori. Meglio però che Malesani si sbrighi a fare risultato: oggi il suo datore di lavoro è distratto dalle vicende politiche, ma non lo sarà ancora per molto...