Nel fango di Sebastopoli c'è l'essenza dell'amor di patria russo
Nel fango di Sebastopoli combattevano i russi venuti da Tula o da Saransk. E chi visitava la fortezza al tempo della guerra contro le armate francesi pensava che la città non sarebbe mai stata presa, anzi, che nulla al mondo avrebbe mai fatto vacillare la forza del popolo lasciato a mollo nella trincea. In quel fango Tolstoj vedeva i segni dell’anima russa, che è semplicità, ostinazione e spirito nazionale.
Nel fango di Sebastopoli combattevano i russi venuti da Tula o da Saransk. E chi visitava la fortezza al tempo della guerra contro le armate francesi pensava che la città non sarebbe mai stata presa, anzi, che nulla al mondo avrebbe mai fatto vacillare la forza del popolo lasciato a mollo nella trincea. In quel fango Tolstoj vedeva i segni dell’anima russa, che è semplicità, ostinazione e spirito nazionale. “Non si possono accettare certe condizioni di vita soltanto per ottenere una croce o una promozione, o per effetto di una minaccia – ha scritto in un romanzo sulla guerra di Crimea, “I racconti di Sebastopoli” – Ci deve essere un’altra motivazione, e quella motivazione è un sentimento che raramente e con pudore si manifesta nel russo, ma che si trova nel profondo dell’animo di ciascuno: l’amore per la patria”. Quello era il mese di novembre del 1854. Un anno più tardi i russi avrebbero abbandonato i bastioni di Sebastopoli.
Ed è lì, alla Crimea, che si guarda oggi per comprendere che cosa accadrà in Ucraina dopo la rivolta che è costata la vita a decine di manifestanti e ha costretto alla fuga il vecchio presidente, Viktor Yanukovich, con la sua cerchia di ministri e consiglieri. Da giorni i russi di Sebastopoli chiedono l’indipendenza e l’intervento di Vladimir Putin: nelle piazze si vedono donne con le bandiere rosse, ombrelli aperti per ripararsi dalla pioggia, drappi neri e arancioni legati ai baveri delle giacche (quello è il simbolo delle Forze armate). I russi sono la maggioranza in Crimea, sono più numerosi degli ucraini e possono già contare su uno Statuto speciale. Con ogni probabilità non sognano di avere un leader come Yanukovich, anzi forse in queste ore a Sebastopoli provano più pena che rabbia nei suoi confronti, è possibile che temano di affrontare una sorte simile alla sua, che abbiano paura di essere cacciati dalla terra che oggi chiamano “casa” o “patria”. Ma non è con la pietà che si scelgono i leader.
In Russia la parola più frequente che accompagna il nome di Yanukovich è “traditore”, traditore del popolo ucraino. Per anni gran parte della stampa europea lo ha descritto come un fantoccio nelle mani di Putin, come un vassallo fedele del Cremlino, in realtà Yanukovich è l’uomo che ha portato il paese a un passo dall’Ue: ha ceduto solo quando si è capito che nessuno in Europa, né tantomeno al Fondo monetario internazionale, gli avrebbe concesso un prestito per fermare la crisi senza la garanzia di riforme imponenti. Ed è stato allora che Yanukovich ha chiesto aiuto alla Russia, ottenendo 15 miliardi da investire sul debito pubblico e sull’industria, a patto di bloccare il processo di avvicinamento all’Europa. Yanukovich non è il primo ad avere preferito la strada in discesa degli accordi con i russi all’avventura delle riforme. L’Ucraina è il solo paese europeo che è uscito dal blocco socialista senza affrontare una “choc therapy”, la struttura produttiva è ferma agli anni Ottanta e la politica non ha ancora generato una classe dirigente post sovietica, nessun presidente, nessun capo del governo si è preso la responsabilità di spingere la nazione oltre la logica dell’economia di stato.
Putin non ha mai mostrato di essere molto vicino a Yanukovich, lo considerava inaffidabile e sul giudizio hanno pesato sicuramente i rapporti del vecchio presidente ucraino con alcuni oligarchi ostili al Cremlino. Secondo i dettagli emersi negli ultimi giorni (e pubblicati dal New York Times), è stato proprio Putin a convincere il collega che era arrivato il momento di lasciare il potere. Oggi a Mosca molti credono che Yanukovich abbia messo il paese nelle mani degli estremisti, che sia fuggito nel momento in cui la nazione aveva bisogno di una guida. Persino un tipo pacato come il premier, Dmitri Medvedev, gli ha rimproverato di comportarsi “come uno zerbino”. Ma l’epitaffio sulla carriera politica di Yanukovich lo ha scritto il capo della commissione Esteri alla Duma, Alexey Pushkov, e ha impiegato pochissime parole per farlo: “Questa è una fine davvero patetica per un leader”. Più o meno lo stesso trattamento riservato all’ex presidente della Georgia, Mikhail Saakashvili (“è un cadavere politico”). Chi è allora il vero alleato di Putin nei palazzi di Kiev? Di chi si fida il Cremlino? A prima vista si potrebbe pensare che il nome non abbia molta importanza, perché chiunque governi sull’Ucraina deve trattare con Mosca. E’ una questione di storia, di soldi e di confini.
Il contagio della primavera slava
In queste ore Putin non affronta soltanto la pressione che arriva dall’Ucraina, ma anche quella che sale dal basso, dalle stanze dei suoi consiglieri e dagli oppositori politici: qualcuno sogna la guerra, altri appaiono indignati per quel che avviene oltre il confine. Nel circolo di Alexandr Dugin, uno studioso legato agli ambienti nazionalisti, l’Ucraina è considerata una “entità geopolitica temporanea”, che si trova sulle carte dell’Europa solo perché non c’è più l’Unione sovietica. E’ una formula elegante per spiegare quel che in fondo molti russi pensano, soprattutto negli ambienti delle Forze armate. Per esempio il leader della destra Vladimir Zhirinovsky ha annunciato pochi giorni fa che le truppe russe prenderanno presto l’Ucraina e sposteranno la capitale da Kiev a Kharkiv (aveva usato toni simili anche nel 2008, augurando ai suoi soldati di tornare in patria dopo avere “schiacciato Tbilisi”). Il settimanale Zavtra di Alexander Prokhanov pubblica quasi ogni giorno sul suo sito internet le mappe con i nuovi confini dell’Ucraina, da una parte si vede la cosiddetta “Repubblica del Pravyi Sektor”, ovvero il gruppo neonazista che era in piazza contro Yanukovich, dall’altra la Rus’ di Kiev. Ma il messaggio più potente per Putin e per l’opinione pubblica arriva dal canale tv Rossiya 24: “Il sangue versato in Ucraina macchia le mani dell’occidente”, dice Dmitri Kiselev, un opinionista seguito da milioni di persone e tenuto in gran conto anche al Cremlino. Kiselev pensa che la rivolta in Ucraina possa contagiare la Russia, che un gruppo ben organizzato riuscirebbe a colpire il governo nel suo punto debole, ovvero nelle piazze, davanti agli occhi del mondo. E’ la tesi della “primavera slava”. Negli ultimi anni l’opposizione si è rafforzata grazie all’arrivo di un personaggio carismatico come Alexey Navalny, avvocato, blogger e nazionalista. Ci sono state manifestazioni imponenenti a Mosca, sino alle azioni più eclatanti portate a termine dalle ragazze punk del gruppo Pussy Riot o dal collettivo di artisti chiamato Voina (significa “guerra”). Dopo ogni corteo sono venuti gli arresti, anche negli ultimi giorni la polizia ha fermato centinaia di giovani che protestavano contro la condanna di otto oppositori.
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