Little Italy
Gli americani e noi dal '45 a oggi (fino a Renzi)
Dopo il ’45 gli americani furono tentati di gestire in prima persona la partita italiana. Carlo Sforza rappresentò un po’ una simile ambizione. Contrastata da Winston Churchill consapevole di come la complicata politica europea avesse bisogno di soluzioni ben più articolate di quelle semplificatrici proprie tradizionalmente di Washington. Poi l’unica via per mantenere Roma nel campo occidentale, di fronte a un partito robusto e malizioso come quello togliattiano, fu puntare sulla Dc sostenuta dalla chiesa e così si andò avanti fino agli anni 90.
Dopo il ’45 gli americani furono tentati di gestire in prima persona la partita italiana. Carlo Sforza rappresentò un po’ una simile ambizione. Contrastata da Winston Churchill consapevole di come la complicata politica europea avesse bisogno di soluzioni ben più articolate di quelle semplificatrici proprie tradizionalmente di Washington. Poi l’unica via per mantenere Roma nel campo occidentale, di fronte a un partito robusto e malizioso come quello togliattiano, fu puntare sulla Dc sostenuta dalla chiesa e così si andò avanti fino agli anni 90.
In questo contesto gli americani ebbero essenzialmente “amici”, non “uomini” loro, spesso democristiani (dal primo Giulio Andreotti a Beniamino Andreatta), peraltro rispondendo così alla vocazione di una potenza imperiale ma che manteneva una (parziale) impostazione non imperialista. I migliori amici degli americani furono saldamente europei: così i Cuccia, i Gianni Agnelli, diversi esponenti dei partiti laici che affiancavano la Dc. Negli anni 70 dopo Vietnam, svalutazione del dollaro, choc da prezzi del petrolio e Watergate, quando lo sbandamento americano aprì ampi spazi all’influenza sovietica e si temeva un’entrata del Pci al governo, l’ammiragliato americano con sede a Napoli – così ha raccontato un grande amico di Washington come Francesco Cossiga – intervenne secondo il modo con cui tradizionalmente gli americani reagiscono alle emergenze: fondò una loggia massonica che nel caso faceva capo a Licio Gelli. L’operazione confermò il giudizio churchilliano: era meglio che Washington non facesse politica in prima persona nei complicati stati europei. Poi, scongiurato il pericolo Urss-Pci, si tornò alla vecchia prassi: non interventi diretti ma cari amici ambasciatori di Roma. Così fino al ’92 quando, senza l’impalcatura della Guerra fredda, lo stato italiano si afflosciò.
Certo, poi, continuarono a esserci amici ambasciatori: da Giuliano Amato ai suoi “nipotini” come Franco Frattini, a un pregiato interlocutore peraltro molto europeo come Carlo Azeglio Ciampi con la sua famigerata politica del vincolo esterno che rilanciava l’Italia. Una passione per Mario Segni. Gli ex Pci da Walter Veltroni a Massimo D’Alema a Giorgio Napolitano, desiderosi di emendarsi, ebbero ruoli significativi nei collegamenti. Però la crisi dello stato italiano, il cessato pericolo comunista, la scomparsa di europersonalità churchilliane, nonché i processi di galoppante globalizzazione videro emergere nuove figure antropologiche: non più amici degli americani, neanche “uomini” degli americani bensì quasi integralmente americani solo dotati di ruoli e passaporti italiani. In un mondo futuro con al massimo sei grandi case automobilistiche, la Fiat, tradizionale interlocutrice degli americani, sperimentò per prima questa tipologia di personalità tricolori e a stelle e strisce. Prima con il mediocre Paolo Fresco poi con il geniale Sergio Marchionne. Anche la globalizzazione delle mafie, con l’arrivo di quella pericolosissima russa, portò l’Fbi ad allevare quadri “italiani” specie nella polizia ma anche nella magistratura quasi più di casa a Washington che a Roma.
Anche un cervello della finanza come Mario Draghi, pur “ottimo” al Tesoro per un lungo periodo, appare una personalità più a suo agio in grandi istituzioni tipo Goldman Sachs che nelle burocratiche maggiori banche nazionali, e per altro verso più attento e convinto interlocutore della Fed che del sistema finanziario tedesco-europeo. Con l’arrivo di Matteo Renzi si ha l’impressione che un americanino, una personalità all’anglosassone sia arrivata anche in politica. Dopo una sorta di precedente farsesco, quello di Veltroni, “americano” alla Alberto Sordi, pare essere arrivato un reale “americano” che quando parla di apertura della finanza italiana sa di che cosa si tratta, che ha un’idea anche sulle istituzioni abbastanza coerente e così via. Senza per altro che vi sia da parte mia un eccesso di mitologizzazione, perché mi pare che il nostro abbia molti dei difetti obamiani, “sindaco di…” (d’Italia o d’America che sia) che banalizza eccessivamente i problemi come avviene per il modello a stelle e strisce.
Serve anche una classe dirigente nazionale
Alla fine però, in una situazione bloccata dalla crisi dello stato, gli americani d’Italia portano una capacità di rottura dello status quo che gli uomini cresciuti nella Prima Repubblica, un po’ per superbia e pavidità e molto per opportunismo, non sono stati capaci di esprimere in questi anni: lo si vede nelle relazioni industriali, nella finanza e si spera che lo si potrà vedere anche in politica. Detto questo il processo descritto è avvenuto anche emarginando molte personalità di grande qualità e di forte ispirazione patriottica (dai Mori ai Pollari, dai Bertolaso ai Guarguaglini). E peraltro non vedo nel prossimo futuro assetti democratici che potranno fare a meno di stati (relativamente) autonomi e quindi, se alle rotture degli “americani” non si combinerà la formazione di un’allargata classe dirigente nazionale, i nostri guai aumenteranno ancora.
Il Foglio sportivo - in corpore sano