Renzi, lo stile libero e il piano possibile per salvare l'elefante dalla palude

Claudio Cerasa

Quando un elefante diventato famoso per il suo sgattaiolare agile tra i negozi di cristalli si ritrova in una nuova cristalleria dove i cristalli che rischiano di frantumarsi sono quelli di sua proprietà, e non più quelli degli altri, capita quello che sta succedendo in questi giorni a Matteo Renzi: il passo si fa più prudente, la velocità di crociera si riduce, i barriti vengono offerti solo dopo lunghe e accurate riflessioni e le movenze dell’elefante, non essendo più possibile agitare a destra e a sinistra la proboscide come se nulla fosse, diventano più felpate, più controllate, a volte persino più prevedibili.

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    Quando un elefante diventato famoso per il suo sgattaiolare agile tra i negozi di cristalli si ritrova in una nuova cristalleria dove i cristalli che rischiano di frantumarsi sono quelli di sua proprietà, e non più quelli degli altri, capita quello che sta succedendo in questi giorni a Matteo Renzi: il passo si fa più prudente, la velocità di crociera si riduce, i barriti vengono offerti solo dopo lunghe e accurate riflessioni e le movenze dell’elefante, non essendo più possibile agitare a destra e a sinistra la proboscide come se nulla fosse, diventano più felpate, più controllate, a volte persino più prevedibili. Fuor di metafora, era inevitabile che lo stile di Renzi, il suo gioco rapido da battitore libero che ogni giorno cerca di preservare la sua giovinezza politica a colpi di sorprese, di annunci, di promesse, di tweet e di possibili riforme, si ritrovasse ad affrontare un passaggio complicato: quello di essere insieme uomo di lotta e di governo pur essendo ormai poco di lotta e particolarmente di governo e quello di essere insomma lontano dalla politica di palazzo pur essendo ormai decisamente con entrambi i piedi dentro il palazzo della politica.

    Negli ultimi giorni, se così si può dire, il passo felpato di Renzi, il suo tocco che da travolgente è diventato prudente, lo si è notato in una serie di occasioni. Lo si è notato sul dossier ucraino, dove la posizione di andreottiana equivicinanza di Renzi è comprensibile e ha un senso politico ma dove accanto all’andreottismo è oggettivamente mancato un tocco di renzismo: e si capisce che in una fase delicata come questa sia necessario non utilizzare parole fuori posto e cercare di misurare sempre le espressioni per non perdere l’equilibrio ma non è pensabile che il presidente del Consiglio non riesca a trovare una parola giusta, un tweet, un post, una e-news, per dare alla sua politica estera un tocco magico e meno notarile del semplice facciamo-tutto-quello-che-ci-suggerisce-la-Merkel.

    Lo stesso tocco prudente, e un po’ deludente, è quello che si è intravisto ieri alla Camera, dove il Pd di Renzi è riuscito sì a non perdere contatto con la responsabilissima opposizione di Forza Italia (tu guarda, il Cav. non ha tutta questa voglia di votare…). Ma dove Renzi è stato comunque costretto ad accettare le condizioni dei due azionisti di minoranza della maggioranza: gli alfaniani e i bersaniani, che di fatto ormai si muovono come fossero un unico partito, gli alfa-bersa, e che hanno ottenuto il “sì” di Renzi (e di Berlusconi) a un emendamento molto discusso firmato da Alfredo D’Attorre.

    L’emendamento prevede la trasformazione dell’Italicum in una legge elettorale strabica che di fatto entrerà in vigore in modo definitivo solo quando verrà approvata la riforma del Senato. E fino ad allora? Facile: l’Italicum (sistema ultra maggioritario) potrà essere utilizzato anche subito alla Camera viceversa per il Senato dovrà essere utilizzato il sistema elettorale uscito dalla Consulta (ultra proporzionale) fino a che non sarà approvata la riforma del Senato (ci vorranno almeno diciotto mesi). Risultato: venerdì prossimo Renzi potrà giustamente cantare vittoria e annunciare festoso lo storico “sì” di Montecitorio all’Italicum ma dal giorno dopo si ritroverà in Parlamento in una condizione non troppo diversa da quella in cui si trovava Letta; e proprio come l’ex presidente del Consiglio non avrà la possibilità di far trottare il Parlamento utilizzando facilmente l’arma di fine mondo delle elezioni anticipate (nel senso: Renzi potrà farlo ma minacciare di andare a votare con una legge elettorale che non garantisce la governabilità oggettivamente indebolisce l’arma di fine mondo).

    Anche qui gli alibi sono molti: giocare con due maggioranze non è facile, i gruppi parlamentari del Pd rispondono a logiche diverse rispetto a quelle congressuali e dopo aver ottenuto il passo indietro del sottosegretario Gentile era prevedibile che Renzi avrebbe concesso qualcosa ad Alfano. Ma nonostante gli alibi, anche in questa partita lo stile libero di Renzi ha dovuto fare i conti con la dura realtà della palude parlamentare. Ma dalla giornata di ieri, comunque la si voglia mettere, è difficile non ammettere che l’elefante ha infilato la sua zampa tra gli schizzi della palude. A questo poi si potrebbe aggiungere anche il sorprendente capitolo delle nomine del sottogoverno dove Renzi è sì riuscito a limitare la presenza di magistrati e consiglieri di stato nelle cabine di comando (non in tutte, citofonare a Via Arenula ad Andrea Orlando) ma dove non è riuscito ad evitare il commissariamento da parte del presidente della Repubblica di alcune caselle chiave, di fatto rimaste nelle mani di chi governava prima.

    Il caso più clamoroso è quello del ministero dell’Economia, Pier Carlo Padoan, circondato da un robusto apparato napolitanian-lettiano (da Roberto Garofoli, ex segretario generale della presidenza del consiglio e oggi capo di gabinetto di Padoan, a Fabrizio Pagani, ex consigliere degli affari economici e internazionali di Letta e oggi capo della segreteria tecnica del Tesoro). Ma un caso ugualmente importante è anche quello legato al capo del dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi (che, come ai tempi di Letta, resta nelle mani di Carlo Deodato). Ovviamente, Renzi sa che la rottamazione corre ogni giorno il rischio di essere contaminata dalla sindrome di Gulliver e sa che non sarà sufficiente l’“habemus italicum” di venerdì per non far perdere all’elefante il vigoroso slancio del passato. Da questo punto di vista, un passaggio chiave sarà la partita che si comincerà a giocare il 13 aprile, quando il governo Leopolda dovrà mettere mano all’assegnazione di 600 nomine pubbliche relative ai consigli di amministrazione di 14 società controllate dal ministero dell’Economia più altre 35 controllate indirettamente. Un passaggio chiave sarà anche il piano sul lavoro che Renzi presenterà in Parlamento entro il prossimo 17 marzo (e che quel giorno illustrerà a Berlino ad Angela Merkel durante un bilaterale tra il governo italiano e quello tedesco).

    Ma la vera mossa a sorpresa che Renzi vorrebbe annunciare nelle prossime ore, quando verrà ufficializzata la nomina di Yoram Gutgeld come capo del dipartimento economico di Palazzo Chigi, è relativa alla spending review. Il presidente del Consiglio, che non dovrebbe riconfermare il commissario Carlo Cottarelli, punta, così come fatto per il dossier della Coesione territoriale, a entrare in possesso del capitolo della revisione della spesa per avere in mano due strumenti potenzialmente formidabili: la gestione diretta dei 60 miliardi di fondi comunitari che arriveranno entro il 2014 nelle casse dello stato e la gestione diretta del taglio della spesa pubblica. Una sorta di ministero ombra dell’Economia per evitare sorprese e mettere il governo al riparo dal commissariamento dei burocrati. Non sarà facile ma Renzi dovrà provarci per continuare la sua marcia e non perdere il suo stile libero. I segnali di questi giorni non sono buoni ma siamo ancora all’inizio, la strada è lunga e nulla irreparabile. Con una certezza, però: per il premier elefante non ci sarebbe un errore peggiore che avvicinarsi alla palude e lasciarsi legare le zampe come Gulliver solo per paura di rompere qualche piccolo cristallo.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.