Così è tramontato il potere di Bandar, il re delle spie saudite
L’Arabia Saudita ha deciso un cambio di strategia nella battaglia per influenzare il risultato della guerra civile in Siria – che da tempo fa parte, come si sa, della più generale guerra fredda in corso tra i regni arabi del Golfo e l’Iran. Questo cambiamento può essere riassunto così: per la Siria non si può fare come si faceva negli anni Ottanta, , quando il regno lasciava che i suoi giovani partissero per andare a combattere il jihad contro i sovietici in Afghanistan, perché oggi il rischio che i volontari che sopravvivono alla guerra in Siria tornino a casa e facciano partire un jihad interno contro il re e contro i principi, visti come corrotti e compromessi con l’occidente, è troppo elevato.
L’Arabia Saudita ha deciso un cambio di strategia nella battaglia per influenzare il risultato della guerra civile in Siria – che da tempo fa parte, come si sa, della più generale guerra fredda in corso tra i regni arabi del Golfo e l’Iran. Questo cambiamento può essere riassunto così: per la Siria non si può fare come si faceva negli anni Ottanta, quando il regno lasciava che i suoi giovani partissero per andare a combattere il jihad contro i sovietici in Afghanistan, perché oggi il rischio che i volontari che sopravvivono alla guerra in Siria tornino a casa e facciano partire un jihad interno contro il re e contro i principi, visti come corrotti e compromessi con l’occidente, è troppo elevato; per questo, è meglio fermare l’andirivieni di privati cittadini tra Arabia Saudita e Siria e dare armi e soldi direttamente ai ribelli locali che vogliono rovesciare il presidente Bashar el Assad. Niente più jihad combattuto dall’internazionale islamica. Basterà equipaggiare molto le brigate siriane – come alcune fonti dicono stia già succedendo, ma non ci sono ancora prove chiare.
Il caso-limite che i sauditi hanno bene in mente è (naturalmente) quello di Osama bin Laden, partito per la guerra negli anni Ottanta e tornato rivoluzionario e furente con il palazzo reale dei Saud. Il governo di Riad ha troncato le attività dei gruppi islamisti casalinghi con una campagna efficiente nel 2004 e nel 2005, non vuole che riparta tutto daccapo. Tanto più che la precedente strategia del laissez-faire ha fatto entrare il regno in rotta di collisione con l’Amministrazione Obama. Il governo americano fermò ogni aiuto militare ai ribelli nel settembre 2012 perché temeva le infiltrazioni di jihadisti e non voleva che le armi finissero in mano a gruppi “tipo al Qaida” (oggi è necessario scrivere “tipo al Qaida” perché quei gruppi un tempo facili da definire stanno evolvendo in qualcosa di diverso, ma questo è un altro discorso) e dà la colpa a Riad per la deriva jihadista dell’opposizione armata contro Assad. Se a questo si aggiunge che Obama ha aperto diplomaticamente all’Iran, si capisce perché i rapporti tra Riad e Washington non sono mai stati così freddi come ora.
A fare le spese di questo cambio di strategia è Bandar bin Sultan, consigliere nazionale per la sicurezza e direttore dei servizi segreti sauditi che si occupano dei dossier esterni (si chiamano riasat al istikhabat al amah, direttorato generale di intelligence). Il principe è lo stesso uomo che si è occupato del jihad contro i sovietici negli anni Ottanta, e forse per questo ha pensato fosse possibile usare di nuovo lo stesso modello in Siria contro Assad. Negli anni scorsi si parlava di un “piano Bandar” per descrivere la volontà saudita di contrastare le mire egemoniche dell’Iran sulla regione, anche combattendo guerre per procura in altre zone – come la Siria. Bandar è un gran conoscitore di Washington, ha fatto l’ambasciatore per vent’anni ed è considerato un amico di famiglia dai Bush. A fine gennaio era atteso nella capitale americana per organizzare la seconda visita del presidente Barack Obama in Arabia Saudita, il prossimo 23 marzo. Invece non è mai arrivato nella capitale americana e anzi, dopo allora è scomparso anche dalle cerimonie pubbliche e dai media. Su Bandar, che era onnipresente, è sceso il silenzio completo, tanto che sono cominciate le voci su una “malattia diplomatica”, un malanno inventato per giustificare la sua lontananza dalle scene. Poi a metà febbraio è apparso un pezzo di Ellen Knickmeyer sul Wall Street Journal che lo dava per silurato. Ora si dice si sposti tra il Marocco e l’Italia.
Non è la prima volta che Bandar scompare. Nell’agosto 2012, poco dopo la sua nomina a direttore dei servizi segreti, sparì dalle scene così a lungo che cominciò a circolare una teoria del complotto: era stato ucciso dai servizi segreti siriani con una bomba contro la centrale dei servizi sauditi. I siriani si erano vendicati così dell’operazione Vulcano di Damasco, una battaglia scatenata dai ribelli nel luglio 2011 nel centro della capitale, per breve tempo, si dice ovviamente grazie all’aiuto di Bandar. Il direttore ricomparve, dissolvendo le dicerie. L’ultima fantasmagorica e incredibile teoria del complotto su di lui è quella che riguarda Sochi. Il saudita incontrò il presidente russo Vladimir Putin il 31 luglio 2013 a Mosca e lo avrebbe minacciato: se non abbandoni al suo destino il presidente Bashar el Assad in Siria, scateno gli attentatori ceceni contro le Olimpiadi invernali di Sochi – che invece sono appena finite senza alcun attacco. Invece è Bandar ad avere perso l’incarico.
I segni della fine dell’epoca Bandar – per ora? – sono stati due. L’annuncio di una legge che punisce con pene dai 3 ai 20 anni di carcere chi va a combattere all’estero. E l’arrivo a Washington il 12-14 febbraio del principe Mohamed bin Nayef, che ha incontrato Obama, il segretario di stato John Kerry e il capo della Cia, John Brennan, che conosce dai tempi in cui era un capostazione Cia a Riad. Bin Nayef ha partecipato anche a un incontro con altri servizi segreti nella capitale americana – c’erano anche Qatar e Turchia, secondo David Ignatius del Washington Post – per decidere cosa fare in Siria. E’ stato il segnale definitivo del cambio di politica saudita nella lotta contro Assad.
Mohamed bin Nayef è al centro della guerra saudita contro i gruppi “tipo al Qaida” – ed è il regista anche della campagna congiunta con gli americani (quattro bombardamenti con i droni soltanto negli ultimi sei giorni). E’ sopravvissuto ad attentati multipli e sofisticati, una volta un jihadista si presentò a un colloquio con lui con una bomba nascosta nell’ano. Probabilmente considera i jihadisti un nemico più pericoloso di Assad.
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