Fëdor noir
Ci vorrà un Dostoevskij”, pensava Jorge Semprún a Buchenwald, ci vorrà qualcuno in grado di ritrarre l’anima umana colata a picco nel male. Ma un Dostoevskij non c’era, ed è sempre così, i Dostoevskij sono peggio degli idraulici: mai che ce ne sia uno a tiro quando ne hai bisogno. Le eccezioni sono rare. Quando Necˇaev giustiziò a Mosca lo studente Ivanov, affiliato all’organizzazione rivoluzionaria di cui era ideatore e capo, un Dostoevskij in circolazione c’era.
Ci vorrà un Dostoevskij”, pensava Jorge Semprún a Buchenwald, ci vorrà qualcuno in grado di ritrarre l’anima umana colata a picco nel male. Ma un Dostoevskij non c’era, ed è sempre così, i Dostoevskij sono peggio degli idraulici: mai che ce ne sia uno a tiro quando ne hai bisogno. Le eccezioni sono rare. Quando Necˇaev giustiziò a Mosca lo studente Ivanov, affiliato all’organizzazione rivoluzionaria di cui era ideatore e capo, un Dostoevskij in circolazione c’era. Era il 1869, e l’episodio servì da ispirazione per i “Demoni”. Necˇaev, il giovane nichilista precursore di Lenin dedito alla causa della distruzione con un’abnegazione oscuramente confinante con la santità, volle a ogni costo che l’esecuzione del compagno – sul quale aveva gettato la falsa accusa di delazione – prendesse la forma di un linciaggio, di un patto di sangue tale da suggellare la fraternità rivoluzionaria.
“Tutti i problemi del terrorismo, della lotta clandestina, della disciplina di gruppo, del tradimento, delle ‘mani sporche’, della violenza ‘necessaria’ contro i propri compagni, problemi che sarebbero poi ricomparsi sempre più spesso fino a oggi, appaiono qui in una luce cruda e còlti, per così dire, alla loro scaturigine”. Così si leggeva sul risvolto di copertina de “Il catechismo del rivoluzionario”, il libro di Michael Confino su Necˇaev riproposto di recente da Adelphi. L’“oggi” a cui il risvolto della prima edizione alludeva era il 1976, di lì a poco la parabola delle Brigate rosse avrebbe toccato il suo culmine con il rapimento di Moro. Ma più ancora che l’oggi il caso Necˇaev annunciava il domani, l’epilogo delirante e autodistruttivo della vicenda brigatista – il nichilismo di Senzani, l’uccisione di Roberto Peci, le selvagge esecuzioni dei delatori in carcere – le cui premesse erano già lì squadernate, e aspettavano solo di svolgersi logicamente. Ci voleva un Dostoevskij per raccontare tutto questo, ma un Dostoevskij non c’era, né sarebbe mai arrivato. Tolto Sciascia e pochi altri, le Br hanno ispirato una letteratura tutto sommato deludente: cose minori, qualche romanzo allegorico o fantastico, un’alluvione di noir pedestri.
Conosco una sola pagina che sia all’altezza di quella storia. Non l’ha scritta un romanziere ma un ex brigatista, Enrico Fenzi, nel libro di memorie “Armi e bagagli”, che apparve nel 1987. (Un inciso: se fossi un produttore mi affretterei a comprarne i diritti per farne una fiction, una sorta di “Breaking Bad” italiana: lì era un insegnante di chimica di mezza età che si dava al narcotraffico, qui un quarantenne studioso di Petrarca che passa in clandestinità perché fiuta nell’aria l’Apocalisse rivoluzionaria, e che si spoglia delle sue insegne per farsi soldato semplice dell’esercito di Mario Moretti. Titolo suggerito: “BR – Breaking Red”). E’ la pagina in cui Fenzi descrive l’uccisione del giovane Giorgio Soldati, strozzato dai suoi compagni nel carcere di Cuneo nel dicembre del 1981. Il linciaggio del militante colpevole di aver detto qualche parola di troppo agli interroganti, che riconosce solo la giustizia rivoluzionaria e si consegna spontaneamente nelle mani dei suoi aguzzini, è letto da Fenzi alla luce del Sartre della “Critica della ragione dialettica”, dove era teorizzata la violenza sui traditori come forma del legame d’amore rivoluzionario. Ne cito un passo: “E il processo ci fu, nel refettorio, e si concluse con la sentenza di morte – per strangolamento, dato che non c’era altro modo. ‘Fate presto. Non fatemi male’. Queste sono state le sue ultime parole. Il pensiero dialettico ha vinto, e la fratellanza e l’amore si sono estesi tanto da abbracciare insieme i linciatori e il linciato, nel momento in cui costui si è riconosciuto nel gruppo che gli si stringeva attorno, nel piccolo cesso del refettorio, per ucciderlo. Oltre il vetro sporco dello spioncino, le guardie non si sono accorte di nulla”.
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