L'ultima battaglia di Alemanno per far dimenticare il passo delle oche

Alessandro Giuli

Gianni Alemanno ha sempre dimostrato capacità di mobilitazione culturale largamente superiori a quelle dei suoi colleghi ex colonnelli di An. Il che, se possibile, ha reso più dolente la bancarotta po- litica del suo ambiente, dacché l’esperienza fallimentare da sindaco di Roma e l’implosione pulviscolare dei postfascisti ita- liani hanno scavato una profonda fossa nella quale giace la così detta destra na- zionale. Adesso il fondatore della Destra sociale torna sul luogo del suicidio e lo fa in occasione del suo rinnovato impegno al fianco dei Fratelli d’Italia (Giorgia Meloni, Guido Crosetto e Ignazio La Russa) che si sono riappropriati del vecchio simbolo aennino (non senza strascichi polemici ancora da risolvere). Alemanno ha infatti pubblicato un libro intitolato “Il partito della nazione” (Edizioni del Borghese, 15 euro) che vorrebbe essere un manifesto per la rifondazione di un mondo consegnato (autoconsegnatosi) all’irrilevanza, se non ai necrologi.

    Gianni Alemanno ha sempre dimostrato capacità di mobilitazione culturale largamente superiori a quelle dei suoi colleghi ex colonnelli di An. Il che, se possibile, ha reso più dolente la bancarotta po- litica del suo ambiente, dacché l’esperienza fallimentare da sindaco di Roma e l’implosione pulviscolare dei postfascisti ita- liani hanno scavato una profonda fossa nella quale giace la così detta destra na- zionale. Adesso il fondatore della Destra sociale torna sul luogo del suicidio e lo fa in occasione del suo rinnovato impegno al fianco dei Fratelli d’Italia (Giorgia Meloni, Guido Crosetto e Ignazio La Russa) che si sono riappropriati del vecchio simbolo aennino (non senza strascichi polemici ancora da risolvere). Alemanno ha infatti pubblicato un libro intitolato “Il partito della nazione” (Edizioni del Borghese, 15 euro) che vorrebbe essere un manifesto per la rifondazione di un mondo consegnato (autoconsegnatosi) all’irrilevanza, se non ai necrologi. Lo sforzo di Alemanno ha un pregio insospettato nella crudeltà dell’analisi, anzi dell’anamnesi clinica sulle ragioni che hanno precipitato la destra in terapia intensiva: il correntismo esasperato ereditato dal Msi; la fretta incosciente e gravida di complessi d’inferiorità con la quale è stata istruita la pseudo palingenesi di Fiuggi (1995); le oscillazioni da capogiro in materia di scelte economiche e cul- turali (ad Alemanno, come noto, è consentanea l’economia sociale di mercato, anche se gli si può rimproverare un discreto inventario di scappatelle coi poteri forti e fatui); la fusione a freddo e a occhi chiusi con Forza Italia; l’incapacità di tenere testa a Silvio Berlusconi perfino sui temi qualificanti della proposta politica destrorsa (dall’anticomunismo alla difesa della pre- ferenza nazionale, per non dire delle battaglie eticamente sensibili). Non da ultimo, anzi in cima alla lista, per Alemanno c’è il caso Fini, la cui leadership “si impone in modo mediatico senza radici strutturali” e viene esercitata in un regime di monolatria incontestabile non meno cogente di quella berlusconiana. Con in più il difetto di aver centralizzato in Fini aspettative incenerite nell’arco di poche settimane: “Nel momento della sua uscita dal Pdl – scrive Alemanno – Gianfranco Fini non si presen- ta come un leader di destra che recupera la sua identità e la sua autonomia, ma co- me un personaggio in fuga dal centrode- stra e dalla sua storica collocazione politica”. E qui il bersaglio è pienamente centrato, anche se l’autore non sembra aver riflettuto abbastanza sulla potenza dell’immagine: l’inizio della destra antifascista è coinciso con la fuga di un piccolo re col suo maresciallo Badoglio, la fine della destra postfascista è coincisa con la fuga di Fini dalla casa del padre (Almirante) e poi del padrone (Berlusconi). Vorrà dire qualcosa? Al netto degli interrogativi, Alemanno passa alla proposta politica per fissare un avvenire altrimenti desertico, in buona parte avvalendosi del contributo (anche letterale, nell’appendice del libro) offerto da una pattuglia residuale d’intellettuali sopravvissuti a vari esperimenti editoriali riconducibili ad Alemanno stesso. A co- minciare da Marcello Veneziani. Il risultato è scontato e vizzo anche per chi non s’aspettava chissà quale novità. Alemanno e i suoi tornano lepenisti (preferenza nazionale urlata e crudités identitarie a catinelle, come Fini negli anni Ottanta del secolo scorso), orgogliosamente populisti, desolatamente guelfi nell’ancoraggio coatto alla dottrina sociale della chiesa combinata con un ratzingerismo vintage che nemme- no tiene conto delle ultime novità sopraggiunte dalla fine del mondo. Un po’ poco, se si vuole rifondare un mondo e non solo rimpiangerlo dandosi alle sedute spiriti- che. Oltretutto il guaio è che, in questo poco, non riluce un disegno strategico che vada al di là del tentativo – in sé legittimo e magari remunerativo nell’immediato – di mettersi sulla scia degli eurofobici in odore di vittoria alle prossime elezioni. Se in Fratelli d’Italia-An emergessero volti non compromessi dal collaborazionismo con il destrocida Fini, si potrebbe forse auspicare una correzione di rotta in corsa? Chissà. Non è il caso di Alemanno e Meloni, anche se loro hanno avuto almeno il coraggio di ammettere i propri errori.