I politici
Se bisogna proprio parlare tanto di politica, se tutto il resto deve passare in second’ordine, allora dirò qualcosa di personale in proposito. Dirò male di questo perpetuo privilegio accordato dai media alla politica dei politici. Starli sempre lì a spiare, qualunque rutto esca dalla loro bocca, dà loro un’importanza che deforma la verità delle cose. Si sa che i giornali devono uscire tutti i giorni, che i telegiornali devono andare in onda più volte al giorno, che le trasmissioni tv consacrate, sì consacrate, al talk-teatro sono, mi sembra, una dozzina e senza la giostra politica non saprebbero che cosa mettere in scena.
Se bisogna proprio parlare tanto di politica, se tutto il resto deve passare in second’ordine, allora dirò qualcosa di personale in proposito. Dirò male di questo perpetuo privilegio accordato dai media alla politica dei politici. Starli sempre lì a spiare, qualunque rutto esca dalla loro bocca, dà loro un’importanza che deforma la verità delle cose.
Si sa che i giornali devono uscire tutti i giorni, che i telegiornali devono andare in onda più volte al giorno, che le trasmissioni tv consacrate, sì consacrate, al talk-teatro sono, mi sembra, una dozzina e senza la giostra politica non saprebbero che cosa mettere in scena. Tutto questo però non mi giova. Faccio giornalismo culturale, non so fare altro e una tale ossessione per la politica mi penalizza, arriva a dimezzare le mie entrate mensili: non c’è recensione che non sia meno urgente dei commenti alle ultime mosse dell’ultimo dei governi.
Che volete fare? Sono un individuo che maneggia libri e se non si pubblicassero dei libri (che quasi nessuno legge) non saprei che scrivere. Dovrei fare ipotesi fisiognomiche e previsioni culturali sul futuro di Renzi? Potrei farlo, ma non riesco a trovare le parole. Non vi basta vedere come parla e come cammina? La politica, come tutto (secondo i semiologi), è comunicazione. Poi, molto dopo, ci sono i fatti, presto dimenticati. Salvo notare, dopo anni, che quasi niente è stato fatto, non si sa bene che cosa è avvenuto, ci si chiede di che cosa si sia mai parlato in migliaia di articoli e di ore di televisione.
E’ per questo che domenica scorsa 9 marzo ho letto con soddisfazione e condivisione l’editoriale di Giuseppe De Rita sul Corriere. De Rita si interessa di società, ha questa preferenza, e qualunque cosa dica in proposito, più giusta o meno giusta, la trovo comunque un po’ più interessante di quello che viene partorito dalla testa dei politologi. Leggo nel suo articolo: “Viviamo da settimane il trionfo del primato della politica. Ci sono tutti gli ingredienti di enfasi: sulla rapidità decisionale, sulla governabilità, sul bipolarismo, sulla personalizzazione della leadership, sugli accordi di vertice, sulle convenienze di gruppo e personali, addirittura sulle trappole predisposte da tutti per tutti. E la dimensione mediatica aiuta e potenzia”. De Rita elenca poi le ragioni che oggi rendono irrealistico il presunto primato della politica. Invece che essere organo produttore di potere, la politica è ormai priva di “una adeguata potenza decisionale” per almeno tre ragioni: 1) Perché agisce all’interno di una sovranità statuale in crisi di fronte alla “crescita consistente dei poteri formali e informali delle istituzioni europee, delle cancellerie internazionali, della grande finanza mondiale. Siamo un sistema sempre più eterodiretto (…) Altro che primato della politica”. 2) I politici non esercitano più il precedente potere “di nomina dei vertici delle imprese pubbliche” e lo stato non è più un “soggetto di iniziativa, anche imprenditoriale”. 3) La classe politica non riesce a manovrare l’“azione amministrativa”, i decreti legge non si riesce ad attuarli, sono “o rimasti sulla carta o finiti nel condizionamento dei poteri burocratici”. Se questo è vero “il primato della politica resterà un ballo solitario e di puro spettacolo”. La politica spettacolo cresce, mentre diminuisce il potere politico esercitabile all’interno di uno stato che si crede sovrano e lo è sempre meno.
Da Renzi e De Rita mi distolgo perché mi viene in mente l’articolo che Nicoletta Tiliacos ha scritto due sabati fa sul caso Bakunin-Necaev. Una vecchia storia. La meravigliosa foto di Bakunin scattata da Nadar, che illustra la pagina, mostra un uomo carnalmente, “misticamente” dedito all’agire politico. Agire politico che è vita, contro il vizio intellettuale di pensare e dubitare.
Bakunin si infatuò del giovane demone Necaev, culturalmente rozzo ma politicamente deciso a creare un’organizzazione rivoluzionaria efficiente a costo di “eliminare” chiunque desse fastidio, fosse pure un amico. Il grande scrittore politico Aleksandr Herzen, illuminista scettico e vecchio amico di Bakunin, invece diffidò di Necaev fino a detestarlo. La sua saggezza e il suo acume politico risultano sorprendenti nella loro attualità.
Scrisse in una lettera del 15 gennaio 1869: “Non si deve dimostrare ai proprietari e ai capitalisti che il loro possesso è peccaminoso, immorale, illegittimo (…) ma che l’attuale loro monopolio è un’assurdità palesemente nociva (…). Il nuovo ordine che si va stabilendo deve essere non soltanto una spada che fende, ma anche una forza che custodisce. Mentre sferra il colpo contro il vecchio mondo, non soltanto deve salvare tutto ciò che in esso è degno di salvezza, ma deve lasciare al suo destino tutto ciò che non è d’impaccio, tutto ciò che è vario e originale. Guai a un rivolgimento miseramente privo di spirito e di senso artistico (…). L’umanità in tutti i tempi, anche nei peggiori, ha mostrato di possedere potenzialmente più bisogni e più energie di quanto sia necessario alla sola conquista e gestione del vivere…”. Dissero più tardi i bolscevichi che se si fosse aspettato Herzen, la rivoluzione non si sarebbe mai fatta. Già, non si sarebbe fatta la rivoluzione bolscevica, che tagliò il nodo di Gordio e considerò secondario il pensare.
C’è in “Passato e pensieri”, l’autobiografia di Herzen, una pagina che vede l’autore di fronte a Giuseppe Mazzini, come Bakunin un altro ossesso della politica. Herzen ammirava Mazzini, senza per questo impedirsi di vederne i limiti: “Un grande uomo che agisce direttamente deve essere un grande maniaco”. Discutendo con lui, il discorso cadde su Leopardi. Herzen amava il nostro poeta come amava Byron e Lermontov, mentre Mazzini attaccò Leopardi “con una sorta di accanimento. Mi dispiacque molto; si capisce, ce l’aveva con lui perché non poteva utilizzarlo politicamente”. Sembrava che Mazzini rimproverasse a Leopardi di non aver preso parte ai movimenti del 1848. Così Herzen fu costretto a ricordargli che Leopardi aveva avuto “una seria scusante”: era morto dodici anni prima.
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