Chiedi chi era Berlinguer. La risposta è nel documentario di Walter V.

Stefano Di Michele

Quell’anno, l’anno in cui morì – davanti a tutti: e chi non lo vide morire, lo sentì almeno morire – c’era chi cantava (gli Stadio cantavano) “chiedi chi erano i Beatles”, e la ragazza quindicenne non lo sapeva, “i Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco”. Trent’anni dopo che lui è morto, se ora chiedi chi era Berlinguer non lo sa la ragazzina quindicenne e non lo sa la signora cinquantenne – né gli amici né i genitori né i vicini di casa. I nonni, forse: se non sono del tutto rincoglioniti causa età. Wikipedia, certo: ma bisogna digitare il nome. E il nome non lo conoscono. E il nome non dice niente. Enrico Berlinguer, chi era? E ti rispondono che forse è “famoso” – l’orrida condizione per avere attenzione.

    Quell’anno, l’anno in cui morì – davanti a tutti: e chi non lo vide morire, lo sentì almeno morire – c’era chi cantava (gli Stadio cantavano) “chiedi chi erano i Beatles”, e la ragazza quindicenne non lo sapeva, “i Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco”. Trent’anni dopo che lui è morto, se ora chiedi chi era Berlinguer non lo sa la ragazzina quindicenne e non lo sa la signora cinquantenne – né gli amici né i genitori né i vicini di casa. I nonni, forse: se non sono del tutto rincoglioniti causa età. Wikipedia, certo: ma bisogna digitare il nome. E il nome non lo conoscono. E il nome non dice niente. Enrico Berlinguer, chi era? E ti rispondono che forse è “famoso” – l’orrida condizione per avere attenzione. Forse uno scrittore, forse quello che ha scritto nientemeno “Guerra e pace”, forse un senatore a vita, forse francese, forse di estrema destra, forse ha a che fare con una bomba, forse coreano. Così dicono: un non sapere vaporoso, insignificante, svampitello. Sì, qualcuno dice “una bella persona”, qualcun altro “il capo dei comunisti”, qualcuno che sa – ma è il meno, solo il meno del meno di ciò che il paese è (di ciò che il paese sa): come se chi lo avesse amato si fosse in qualche modo dissolto anch’esso. “Quando c’era Berlinguer” s’intitola il film-documentario di Walter Veltroni che uscirà la prossima settimana nelle sale. Quando c’era, appunto, che è un po’ come dire: c’era una volta – e non c’è più. All’inizio del documentario la lunga carrellata di interviste con le surreali risposte – poi il racconto. Veltroni ama Berlinguer, ama il ricordo di Berlinguer, “mi ha cambiato la vita. All’epoca la politica era un vento che entrava nelle case”, scrive nel libro, con lo stesso titolo del documentario, che uscirà a maggio da Rizzoli. C’è tutto, in quelle due ore: i trionfi, le sconfitte; le timidezze, le cocciutaggini; gli incontri, gli scontri. E ci sono tutti: i protagonisti di una lunghissima storia – chi stava sul palcoscenico, chi di quella storia dava conto, chi da dietro le quinte mai era uscito. Una ricostruzione paziente, pezzo per pezzo così da ridare senso al mosaico caduto in disordine ai piedi del trentennio – come fragili tavolette di argilla di Ebla, è adesso quella storia. Una volta (allora, quando qualcuno non sapeva chi erano i Beatles, ma tutti sapevano chi era Berlinguer) un italiano su tre votava comunista, falce e martello e bandiera rossa, altro che le grottesche messe in scena che seguirono. “Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”, canterà Gaber anni dopo. Aveva una faccia di quelle che non si trovano più in giro – e nel film di Veltroni si vede benissimo – tra il tenente Colombo (i capelli anarchici, l’abito sgualcito, la cravatta allentata) e un’antropologia italiana definitivamente scomparsa. Così la sua faccia, così le facce che si vedono intorno a lui. Non tanto le facce dei dirigenti del Pci – seppure la sacralità del ruolo, allora, quasi piacevolmente spiccava su certe ostentate vanità a venire – ma ecco, per esempio, la folla ai funerali, quella vecchia vestita di nero che quasi non sa come dare l’ultimo saluto, e allora fa ciao ciao con le due mani, poi alza il pugno in aria, poi si fa il segno della croce, bel miscuglio di fede e sentimento. Nell’èra delle brevi certezze (da centoquaranta caratteri) una complessità e un ritmo indecifrabili. Certo, la parte più bella del lavoro di Veltroni è proprio questo scavo antropologico, ben oltre le interviste a tanti autorevoli protagonisti, a cominciare dal presidente Napolitano. Antropologia pure le maschera dei comunisti sovietici, le facce ottuse, già lapidi con un ultimo sospiro dentro; antropologia i riti, le parole, “gli ideali della mia gioventù”, i comunicati. Quelle vittorie trionfanti, quelle sconfitte brucianti, quei vicoli ciechi che preparavano la consumazione finale. Tutto ciò che sembrava immobile ed eterno, e che ora è completamente inabissato – così da perderne pure il ricordo. Resta l’Harley Davidson del giovane Enrico, una piccola barca di legno che si dondola nelle acque di Stintino, quell’idea di serietà, persino seriosità, adesso improponibile. E soprattutto resta quella morte pubblica, lunga, feroce – le parole che fuggono, il fazzoletto sulla bocca, lo sguardo che si stravolge. “Una bella morte”, scriverà Natalia Ginzburg – perché è avvenuta mentre parlava alla sua gente, come aveva fatto per tutta la vita. Forse, se gli anni con Berlinguer fossero stati più generosi, questo film oggi nemmeno ci sarebbe. Però, se esiste una responsabilità della propria vita, è possibile che anche la “bellezza” della propria morte vada meritata.