Trappole della misericordia
Cosa non va nella teologia à la Kasper
“E’ vero che la misericordia divina è infinita. Essa, però, pur essendo illimitata, non è senza criteri. Non può, pertanto, essere invocata anche in presenza di una autentica e perseverante ‘sfida’ a Dio come si verificherebbe nel caso di permanenza nel peccato”. Il professor Danilo Castellano, ordinario di Filosofia politica e docente di Filosofia del diritto all’Università di Udine (dove è stato anche preside di Giurisprudenza), interviene nel dibattito seguìto alla pubblicazione della relazione concistoriale tenuta dal cardinale Walter Kasper sulla famiglia e resa nota dal Foglio.
“E’ vero che la misericordia divina è infinita. Essa, però, pur essendo illimitata, non è senza criteri. Non può, pertanto, essere invocata anche in presenza di una autentica e perseverante ‘sfida’ a Dio come si verificherebbe nel caso di permanenza nel peccato”. Il professor Danilo Castellano, ordinario di Filosofia politica e docente di Filosofia del diritto all’Università di Udine (dove è stato anche preside di Giurisprudenza), interviene nel dibattito seguìto alla pubblicazione della relazione concistoriale tenuta dal cardinale Walter Kasper sulla famiglia e resa nota dal Foglio. Allievo del filosofo Augusto Del Noce e già direttore dell’Istituto internazionale di studi europei “Antonio Rosmini” di Bolzano, Castellano spiega che “i cosiddetti ‘risposati’ divorziati, per esempio, per poter invocare (e ottenere) misericordia devono riconoscere la propria colpa (come Davide) e chiederne perdono. Condicio sine qua non di ciò è l’abbandono della condizione di peccato. Dio, infatti, dà non solamente ‘una seconda possibilità’, ma un numero infinito di possibilità di perdono. Non potrebbe perdonare, però, chi intende rimanere e ostinatamente rimane nel peccato. La teoria che sembra sorreggere la relazione Kasper si allontana, pertanto, dal Vangelo”. Ma non è tutto, visto che a giudizio del nostro interlocutore quanto illustrato dal teologo tedesco “va persino oltre Lutero, perché pretenderebbe di cancellare il peccato e, quindi, di rendere impossibile la sua realizzazione. Più che di ‘annacquamento’ dell’insegnamento cattolico si dovrebbe parlare di ‘abbandono’, rendendo inutile lo stesso magistero e, in ultima analisi, superflua la stessa discussione sinodale sulla questione”. Il problema, dunque, ruota attorno al valore da attribuire alla misericordia, “termine proprio soprattutto della cultura religiosa ebraico-cristiana”, che “invoca innanzitutto la compassione per la miseria morale e spirituale dell’uomo”, dice Castellano, che aggiunge: “Assume anche il significato positivo di compassione, di partecipazione. In questo caso, però, è sempre una situazione negativa che genera la pietà. Il termine continua a essere usato anche dalla cultura cristiana contemporanea. Sembra, però, che esso stia subendo una sostanziale trasformazione”. Di cosa si tratta? “Si ritiene, infatti, che la misericordia comporti l’espulsione della giustizia. Non solo, dunque, un suo generoso superamento”.
Una questione che dunque, sottolinea il nostro interlocutore, “è particolarmente delicata in quanto anche la cultura cattolica ha iniziato a usare il termine misericordia con il significato luterano: la misericordia non implicherebbe il preliminare e necessario abbandono del peccato ma solamente la fiducia nel fatto che Dio non ne terrà conto (pecca fortiter sed crede fortius). Il problema, sottolinea Castellano, è “almeno implicitamente posto da quelle dottrine teologico-morali che, per esempio, a proposito delle convivenze adulterine (il cosiddetto ‘secondo matrimonio’ dei divorziati) sostengono che si può continuare a vivere in una condizione di peccato e nello stesso tempo ritenersi in pace con la propria coscienza. Dio, in altre parole, potrebbe non tenere in alcun conto quello che una persona fa, perché sarebbe solo misericordia. E’ tesi ovviamente insostenibile. Non solo perché Dio non può essere ingiusto ma anche e soprattutto perché a causa del peccato ha sacrificato il proprio Figlio: se la misericordia fosse da intendere come indifferenza di Dio per il peccato, l’incarnazione, la passione e la morte in croce di Cristo sarebbe un’assurdità veramente incomprensibile”. Inoltre, “si può osservare che nemmeno Dio può cancellare il peccato. Può farsene carico ma non metterlo nel nulla. Se il male potesse essere cancellato, in ultima analisi è come se esso non ci fosse. La misericordia, pertanto, non può annullare il bene e il male. In questo caso sarebbero posti, come conseguenza, nel nulla anche i ‘Nuovissimi’ e il magistero non solo non avrebbe alcun senso ma sarebbe violenza contro l’uomo e presunzione verso Dio”. Questione che si pone anche dinnanzi alla relazione di taglio teologico presentata dal cardinale Kasper; un testo che per Castellano “pone diversi problemi”.
Uno di questi, a giudizio dell’ordinario di Filosofia politica all’Università di Udine, “è dato dal rapporto tra la Rivelazione e la storia. E’ noto che anche oggi si sostiene che la storia è sostanzialmente l’epifania di Dio”. Kasper, secondo Castellano, “non arriva alla conclusione secondo la quale la storia è una sola, solamente quella sacra, come ha scritto qualche vescovo (cattolico) del nostro tempo, attribuendo erroneamente la tesi al Vaticano II – che, invece, afferma che uno solo è il Signore della storia, sia di quella sacra sia di quella profana –. Ritiene, però, di poter individuare i contenuti della Rivelazione ricavandoli da una descrizione della storia ‘sacra’, la quale non presenta tutto come modello da imitare. In altre parole per ‘leggere’ anche la storia sacra bisogna avere l’intelligenza del principio. Altrimenti la storia diventa giustificatrice della effettività (che non è la realtà). Sostanzialmente, quindi, “applicando la teoria Kasper, si finirebbe per sostenere – per esempio – che tutte le convivenze sarebbero buone e sarebbero tali solo perché effettive. Non sarebbero ‘qualificabili’ e, perciò, non sarebbero comprensibili nella loro sostanziale diversità. Unica via d’uscita da questa impotenza intellettuale sarebbe l’attribuzione loro di un contenuto convenzionale e, perciò, arbitrario. Il fatto è che per ‘leggere’ la storia è necessaria la verità. Per leggere quella sacra è necessaria la Rivelazione, non come semplice storia ma come principio. Il cardinale Caffarra – prosegue Castellano – ha ben posto la questione a questo proposito (sul Foglio di sabato 15 marzo, ndr). Non è, quindi, la storia condizione della Rivelazione, ma la Rivelazione condizione della storia sacra”.
Ma se la relazione del cardinale Walter Kasper pone più di un problema, la chiesa cattolica corre qualche rischio nell’adeguarsi allo Zeitgeist, nello scendere a patti con il mondo? Su questo punto, il nostro interlocutore ricorda che “la chiesa è per sua natura madre e maestra. Non può farsi discepola del mondo né deve rincorrere le mode di pensiero e di costume, essendo chiamata a giudicarle e prima ancora a proporle. L’adeguamento allo Spirito del tempo è una tentazione antica che taluni autori hanno fondatamente chiamato ‘clericalismo’. E’ una tentazione praticata spesso soprattutto dal clero nel tentativo di ‘battezzare’ dottrine e prassi talvolta palesemente assurde e a distanza di tempo fallimentari”, aggiunge Castellano. “La chiesa – dice ancora – è chiamata a ‘contestare’ il mondo, non a seguirlo. Se si mette alla sequela dello Spirito del tempo segna la sua fine, ma sappiamo che le forze a essa contrarie – anche se a essa interne – non prevarranno!”. Eppure, da più parti si sostiene che lo sbocco del dibattito che troverà nei prossimi sinodi la propria sede naturale, sarà inevitabilmente quello di riconoscere un nuovo concetto di famiglia, mettendo in discussione e superando quello ribadito con forza da Giovanni Paolo II con l’esortazione apostolica Familiaris Consortio. A giudizio di Castellano, “il magistero della chiesa non ha operato la svolta. Ritengo che non lo possa fare. La cosiddetta cultura cattolica, però, è andata ben oltre. Per esempio è diffusa la tesi secondo la quale non ci sarebbe l’indissolubilità del matrimonio ma solamente quella della coppia, la quale sarebbe tale solamente se e fino a quando le parti si ‘sentono’ unite. Parte della cultura cattolica, poi, è a favore delle unioni fra omosessuali in nome – talvolta – del cosiddetto principio personalistico, che ha fatto capolino anche in recenti e autorevoli interviste. In questo momento la famiglia è veramente difesa solo dalla chiesa, anche se uomini di chiesa fanno tutto il possibile per mutarne, in nome della dottrina liberal-radicale dell’occidente, la natura. Coloro che tentano e vogliono “cambiare” la realtà della famiglia – aggiunge – sono da una parte insipienti e, dall’altra, deboli: non hanno né la capacità di conoscere la realtà (l’ordine del creato) né la forza di resistere al soffio del vento del momento storico in cui vivono”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano