Poletti, l'uomo cooperativo di Romagna alla guerra del Jobs Act
L’uomo della Legacoop, impresa come cooperazione e lavoratori unitevi, chiamato dal premier Matteo Renzi al ministero del Lavoro e del Welfare, è sceso in trincea. Il neoministro Giuliano Poletti risponde a tutti, interviene su tutto, si occupa di tutto un po’. Sindacati, pensionati, esodati, precari, lavoratori autonomi. Incalzato da televisioni, radio e giornali, risponde pacatamente. Con la doppia esse emiliana infilata fra i denti, ogni tanto inciampa nel suo italiano un po’ approssimato per difetto perché, come ha confessato lui stesso, scherzando al suo debutto, “io traduco dal dialetto”.
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L’uomo della Legacoop, impresa come cooperazione e lavoratori unitevi, chiamato dal premier Matteo Renzi al ministero del Lavoro e del Welfare, è sceso in trincea. Il neoministro Giuliano Poletti risponde a tutti, interviene su tutto, si occupa di tutto un po’. Sindacati, pensionati, esodati, precari, lavoratori autonomi. Incalzato da televisioni, radio e giornali, risponde pacatamente. Con la doppia esse emiliana infilata fra i denti, ogni tanto inciampa nel suo italiano un po’ approssimato per difetto perché, come ha confessato lui stesso, scherzando al suo debutto, “io traduco dal dialetto”. Tornato dalla missione europea a Berlino, dove il premier e il suo staff economico hanno cercato una sponda con la cancelliera tedesca Angela Merkel, Poletti ha il suo bel d’affare, per ora mediatico, per difendersi dalle accuse della sinistra de’ noantri e dalla Cgil di Susanna Camusso di voler aumentare – lui, l’uomo cooperativo – la precarietà del lavoro. Accusa infame, pare di capire, ma che ormai è diventata la spada di Damocle per ogni ministro del Lavoro, costretto a misurarsi con la drammatica realtà del mercato del lavoro italiano, in cui il posto fisso è diventato una chimera, e con la rigidità ideologica figlia di altri tempi.
Lui si difende da mercoledì scorso, da quando cioè come primo passo verso il Jobs Act il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto sui contratti a termine e sulle norme per l’apprendistato con cui il ministro del Lavoro ha eliminato alcuni paletti della riforma Fornero: introdotti per ridurre proprio la precarietà, ma poi diventati un’arma a doppio taglio, se non proprio controproducente. La speranza, questo è in sintesi il pensiero del ministro, è di indurre così le imprese a offrire più lavoro. Criticato anche dall’economista Tito Boeri, che da tempo predica un suo modello di riforma sulla carta più ambizioso (più costoso? Difficile stabilirlo), Poletti ripete che bisogna essere realisti e ricorda che quasi il 70 per cento dei nuovi avviamenti sul lavoro sono stati fatti con contratti a termine, e quindi bisogna farci i conti: trovando i modi adeguati ai tempi duri che corrono per indurre le aziende a tenersi i lavoratori, altro che storie. Anche perché lui, che sulle cifre delle coperture finanziare da trovare per le riforme si tiene prudentemente a distanza, è l’uomo che si deve sporcare le mani. Del resto è attitudine della terra da cui proviene, da una famiglia di contadini che sono stati mezzadri, in una frazione del comune di Mordano, Bubano, in terra romagnola. Perché è abbastanza chiaro che spetterà a Poletti l’ingrato compito di aggirare lo schema concertativo e trovare ugualmente un compromesso con i sindacati più belligeranti, concentrati sulla difesa dei pensionati e dei lavoratori protetti, da cui attingono il loro consenso. Sarà lui a “metterci la faccia”, su una delle riforme strategiche del governo che ruota intorno a diverse emergenze: la disoccupazione giovanile, la semplificazione della giungla contrattuale, la revisione degli ammortizzatori sociali, la creazione del contratto unico a tutele crescenti, un nuovo codice del Diritto del lavoro, che risolva – prima o poi, il tabù è lì e va affrontato, pena il fallimento – anche il nodo dell’articolo 18. Temi delicatissimi per i quali gli hanno affidato una legge delega che dovrà dare risposte entro sei mesi al Parlamento. “Sei mesi? Ci vuole così tanto tempo ministro?”, gli chiedono tutti, incalzandolo perché si deve combattere una battaglia contro la spietata clessidra. E allora lui risponde che di più non si può fare. E sebbene il governo Renzi venga narrato in punta di Twitter, sul mito della rincorsa e della velocità, l’uomo solido romagnolo risponde sempre paziente, con calma, come avesse a disposizione un tempo infinito. “Bisogna riflettere, dobbiamo discuterne”, replica a tutti quelli che lo tirano per la giacchetta. “Definirlo liberale forse è eccessivo, riformista sì”, dicono di lui i suoi collaboratori più stretti. Anche se Giuliano Poletti – che prima di passare nelle file dell’esercito di Renzi alle primarie del 2012 aveva votato per Pier Luigi Bersani come quasi tutti i dirigenti dell’apparato post comunista emiliano – una fissa dogmatica che profuma di socialismo realizzato ancora ce l’ha. E’ convinto che tutti devono avere un mestiere, persino i pensionati. “Tutti devono avere un’occupazione, o almeno un lavoro socialmente utile, contribuire alla collettività, nessuno deve stare a casa e prendere il sussidio”, continua a ripetere, anche se poi il neoministro, perito agrario, ha sempre e solo fatto il funzionario. Sin da quando era segretario del Partito comunista negli anni 80, a Imola. Ex giocatore di pallamano, due figli, una moglie, Anna Venturini, assessore alle Politiche sociali al comune di Castelguelfo, descritta da chi la conosce come una specie di Biancaneve, è ancora tifoso della sua squadra del cuore, il Romagna, e ha un’altra passione molto emiliana o molto comunista, chi lo sa, per la “roulotte”: lo chiamano così, dalle sue parti, il camper con cui va in vacanza in pineta, al mare, ogni anno nello stesso posto, a Pinarella sull’Adriatico.
Allievo, seppure putativo, di Marco Biagi. Giuliano Poletti lo ha dichiarato due giorni fa alla trasmissione di Radio 24, “Mix 24”, nel giorno in cui si commemorava l’assassinio del giuslavorista ammazzato dalle Brigate Rosse il 19 marzo di dodici anni fa, a pochi passi da casa sua, inerme e senza scorta. “Ci siamo frequentati e abbiamo lavorato insieme, per me era un caro amico. E ancora oggi è un punto di riferimento, le sue idee hanno trovato una conferma storica”, ha raccontato con enfasi a Giovanni Minoli.
Sono giorni di lotta oltre che di governo, per il neoministro del Lavoro. Deve rispondere alle aspettative create da Renzi e cammina in punta di piedi, con l’abilità del pontiere-tessitore che ha traghettato Legacoop – di cui è stato presidente per diversi anni – verso la fusione con le cooperative bianche e alla fondazione dell’Alleanza delle cooperative. Ora i suoi ex compagni di viaggio dicono che a Imola erano tutti “miglioristi”, per far capire che il suo percorso è lineare e che al governo Renzi ci è arrivato perché è un riformista. “Noi abbiamo sempre difeso solo e sempre la produzione delle imprese manifatturiere, e il rapporto con la Fiom non è mai stato facile”, ammette il suo ex braccio destro Sergio Prati, di area socialista, presidente della Legacoop di Imola. Il mondo cooperativo da cui proviene è da tempo bersagliato dalle critiche per via degli stipendi bassi e l’alto tasso di precarietà. Ma mentre annuncia tutte le battaglie che si devono fare, ripete spesso che bisogna superare la conflittualità con le parti sociali. Tradotto significa una cosa sola: alla guerra fredda con la Cgil, ci dovrà pensare lui.
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