(foto Ansa)

I primi novant'anni di Macaluso

Stefano Di Michele

Prende e riprende passione, respiro e posizioni scomode. Persino, e molto, si diverte. Dura così bene, Macaluso, perché di dura passione è fatto. Passione non fanatica, ma passione vera. Un ritratto

    Dammi passione, si cantava, “anche se il mondo non ci vuole bene” – ma lui, che si orienta piuttosto verso “Madama Butterfly”, verso la “Bohème”, chissà se ha mai avuto occasione di ascoltare Neffa. E poi, il mondo (la maggior parte, almeno), gli vuole bene. Lo stesso, anzi per questo, prende passione, Emanuele Macaluso. Anche adesso che ha novant’anni esatti – vita non solo lunga, ma pure vita bella: perciò lunghissima vita al compagno Macaluso. Prende e riprende passione, respiro e posizioni scomode. E perciò prende pure una sciarpa colorata, un foulard vezzoso, una valigia leggera, un libro, meglio se in odore di eresia, e va: a presentare altri libri, a dibattere, a curiosare, a battibeccare, a far spesa al mercato del Testaccio. A nord. A sud. Un treno. Un aereo. Una macchina. Non tira a campare, “per carità, per me sarebbe la morte”: campa, cioè vive. Persino, e molto, si diverte. Dura così bene, Macaluso, perché di dura passione è fatto. Passione non fanatica, ma passione vera – quella che “ci tiene in pugno molto più vivacemente della ragione” (Montaigne). E non che non sia ragionevole, anzi parecchio ragionevole Macaluso è, a un passo dalla saggezza, passo però che gagliardamente rifiuta di compiere. Ragionevole, perciò, non fino al punto di cedere tutto al gracile e fragile argomentare della ragione stessa, perbene e pallosa, un’esistenza castrata e assennata e assopita – mica è un banchiere, di quelli che sanno sempre come salvare il mondo, e fanno apposito partito; mica è un giornalista, che pure quelli sanno sempre come salvare il circondario, e fanno apposito editoriale; mica uno stitico politico di ultimo conio, che pure quelli hanno sempre la soluzione in centoquaranta battute, e fanno apposito tweet. Un ragionevole un po’ matto, ecco cos’è Emanuele Macaluso – ché un filo di pazzia tiene in pugno ancora più vivacemente la passione stessa.

    Per questo, anche per questo, mai è noioso il compagno Macaluso. Può fare incazzare, magari, e che gran gusto, allora, quando qualche Templare del Luogo Comune grida che è stata profanata la sacralità del suo deretano (facendo tutt’uno, il suddetto deretano, con le meglio cause in giro: fosse l’antimafia, fosse la sinistra, fosse la democrazia tutta)! Così a Macaluso toccò pure l’ignobile accusa di aiutare “oggettivamente” la mafia – lui, Emanuele Macaluso che aiutava la mafia! Accusa che veniva da dentro il suo stesso partito, come un conato di vomito – e racconta sempre che nessuno lo difese, allora, “vili”, solo il suo amico Giorgio Napolitano lo fece.

    A tromboneggiare cose sagge mica ci vuol tanto, ma Macaluso il pelo per il verso giusto raramente ha lisciato – né il suo, per fortuna, si è fatto lisciare, e basterebbe il solo saggio che ieri ha pubblicato sul Foglio sul borgesiano labirinto della trattativa tra stato e mafia. Il suo quasi secolo di vita è spesso un traguardo che al rincoglionimento o alla polvere museale (museo delle cere, peraltro) consegna: di ferro e di pietra le opinioni, di ferro e di pietra il cervello, di molle pastella si mostra il cuore. Macché. Macaluso cammina e cammina, a passetti svelti, prende pioggia e vento e sole, riempie la sporta, fiuta l’aria col baffo gattesco, l’arabescato riporto smosso dal vento si fa antenna sensibile – e di maggiore fragilità sempre più forza fa. Era un autorevole dirigente comunista già da giovane, si è fatto vecchio brillante e irriverente, “ecco, la vecchiaia per me corrisponde alla fine di ogni condizionamento”. La vecchiaia della vecchiaia meglio ancora: e così non c’è un giorno che stia quieto, il compagno Macaluso, non un giorno senza uno sberleffo – perché novanta anni sono come la vetta del K2 e man mano che sali verso la sommità (ottanta, ottantuno, ottantadue…) lo sguardo si fa più limpido, l’orizzonte più sgombro, la stupidità più visibile.

    E’ la passione che tiene vigili, la passione che certe volte è pure più forte delle articolazioni cigolanti, quando le stesse cigolano. Forse genera fosforo, chissà. Novant’anni non l’hanno saziato, a Macaluso. La passione rende bulimici di curiosità, quando non travasa, in certi suoi contemporanei, nella vanità e nella triste autosolennità, nella stupidità: viventi e già busti del Pincio. Ci sono vecchi che mestamente finiscono spiaggiati come capodogli e continuano a credersi in alto mare: muovono coda e pinne inutilmente, spettacolo di animale morente per bagnanti che fotografano vogliosi. Cetaceo vivo e vispo, e ancora in alto mare, invece, è il compagno Macaluso. La passione è adrenalina, anticorpo, magnesio in abbondanza. La passione fu capace di alimentare la politica quando tutto cominciò per il giovane Emanuele da Caltanissetta, ribaldo seduttore, virgulto comunista, caruso condannato a una morte precoce – a sedici anni vomitava sangue, tubercolosi polmonare, sanatorio davanti al quale la gente passava premendosi il fazzoletto sulla bocca. E mica veniva in mente “La montagna incantata”, macché, ma solo un pensiero che trapanava, solo una richiesta, solo un’invocazione, prima del vecchio ateo di buon senso ci fu un ragazzo spaventato: “Dio mio, se arrivassi a trent’anni. Dio mio, trent’anni mi ripetevo in continuazione” – perché a ragione, ti spiega adesso Macaluso, quando hai sedici anni e vomiti sangue, trent’anni ti sembrano un miracoloso traguardo. Ne ha avuti trenta, poi ne ha avuti sessanta, ora ne ha novanta. Per tre, l’invocazione generosamente si è moltiplicata – e grazie alle sue passioni lui l’ha ulteriormente dilatata. Ci ha stipato, come dentro un bastimento, politica e amori, libri e polemiche, amici e inestirpabili dolori, errori e ricordi. Il socialismo, che fu comunismo – il socialismo, parola che il compagno Macaluso mai ha voluto dannare. Le donne – persino un giovanile soggiorno in carcere, per una amata ma già sposata. Adulterio – “la moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera”, recitava il c.p., ché i tanti anni dell’appassionato Macaluso hanno scavalcato pure i giorni delle norme arcaiche e incivili, o semplicemente stupide. I libri – letti, scritti, dibattuti. Gli articoli – mille e più mille, e chissà quanti altri, la mattina mentre mette la moka sul fuoco, nella casa di Testaccio, il compagno Macaluso già pensa a cosa scriverà, con disciplinata indisciplina.

    La politica è certo stata la sua passione più grande. Lo è ancora. Ha avuto in sorte Togliatti e il comunismo, e il partito si occupava anche se stavi con una donna sposata: l’ipocrisia calava come zucchero o topicida a velo, ma rimaneva un senso dell’intelligenza delle cose, persino delle cose umane, e a volerla praticare il margine di una certa libertà sempre si trovava. Condizionata, sicuro, figurarsi – ma il condizionamento, a volte, aiuta a esercitarla ancora meglio. Poi Berlinguer, e con la sua morte “quella sorta di disciplina interiorizzata era finita”. E amici che il senso comune (cioè il cretinismo con fiocchi e dorature: è stato sempre più tossico della celere di Scelba e delle forze della reazione in agguato) voleva nemici – come Montanelli. E nemici difesi nel momento in cui il mondo che li aveva omaggiati si avventava a sbranarli – come Andreotti mafioso. L’inerpicarsi di Macaluso verso la vetta più alta ha certo lasciato dietro vuoti e rimpianti – gli amici scomparsi, i pranzi che non ci sono più, le voci di tante sere, le lunghe passeggiate in compagnia. “Una rosa che perde i suoi petali”, disse della vecchiaia, sua e altrui, appena tre anni fa, in una chiacchierata con il Foglio. S’infervora, s’incazza, più spesso sfotte, il compagno Macaluso. Non è un nostalgico – ciò che è andato è andato, casomai ha rimpianti. Come quando racconta che nella direzione del Pci erano una ventina di persone, e si parlava, e ci si scontrava, adesso chissà quanti sono, buongiorno e buonasera, e chi si è visto si è visto.

    La passione in politica uno ce l’ha, per misteriose vie traverse, come un Dna, come ormoni che pulsano, sangue che scorre. Se la costruisce, anche. E i leader che si possono incontrare, capaci di darsi quel respiro; ma più ancora le persone che hanno posto solo nella tua storia personale – e sempre Macaluso ricorda il compagno minatore Calogero Boccadutri: c’erano nei partiti, nel Pci come negli altri, di questi militanti in grado di toccare il cuore e la testa, e potevano saper leggere a fatica, e a fatica scrivere, ma erano capaci di collegare i fatti e le necessità e i sentimenti dell’uomo. E mostravano e spiegavano i costi delle scelte – ché allora ciò che è vero e importante gratis non può essere. Ora che è tutto carne da web e carne da tweet e carne da primarie, senza polvere e senza graffi, lastra di vetro senza appigli, chissà il compagno Boccadutri dov’è finito, che posto ha – che numero, che numeretto, che statistica è?

    Dammi passione. La vedi in Macaluso, certo – che ancora traversa ponti e strade e porte di ristoranti. Succede ancora di vederla in quella fugace immagine, pochi secondi, di Pietro Ingrao nel film di Veltroni su Berlinguer: con la sua maglietta troppo grande, i suoi novantanove anni che sono alle porte, le sue parole cercate con fatica, le bende che coprono le mani. E’ quella luce nello sguardo, ancora non persa. Quel sapere di esserci stati, e di non voler abbandonare (non ancora, infine mai) il posto, il presidio dell’esistenza e delle proprie convinzioni. La battaglia, buona o sbagliata che sia – il “voglio la luna!”, imperiosamente chiesta come contropartita per decidersi a fare, bimbetto, la pipì nel vasetto; la luna che non si può afferrare, e che nessuno dovrebbe voler afferrare, metafora di cose più terrene, così che in un insospettabile suo blog si ritrova ancora Ingrao, in compagnia dei versi di Brecht e della sua memoria, “sono figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio…”. O si può vedere, questa passione, nel film-documentario di Daniele Segre, “Luciana Castellina, comunista” (Fandango) – la vecchia e bella militante, orgogliosa ancora, nelle immagini orizzonte di mare davanti e ginestre ai lati, dietro sempre un cesto di frutta (caravaggesco, pare) e librerie stipate (con errori o ragioni, stipate). “Nonna, ma davvero tu sei comunista?”. “Sì, certo, sono comunista” – e quella cosa magica e forse per sempre irrisolta di “veder crescere le persone da sudditi a soggetti”, la giovanile esperienza nel fermare i filobus durante le manifestazioni staccando i fili, l’accusa di aver preso a ombrellate la polizia, e il tema a scuola della figlia Lucrezia, l’incredulità della piccina di fronte al sospetto, “tu sei disombrellata, disombrellata di natura”. Per singolare paradosso, chi fu comunista – e comunista è quasi ovunque pratica rinnegata, parola sbandata – ha saputo trovare meglio di altri gli strumenti per preservare e raccontare la sua antica passione.

    Ma passione ci fu pure altrove, persino un antico doroteo come Emilio Colombo – così elegante, così formale, nella sua saggezza e magari nel suo vizio felice (è spesso, la segretezza, componente della felicità stessa), non era forse appassionato quando, poche settimane prima di morire, a novantatré anni presiedeva la seduta inaugurale del Senato, inchiodando i grillini vocianti, ultimi tra gli scamiciati e scravattati rivoluzionari, al nodo e alla decenza: “Se si presentano senza giacca e cravatta non li faccio nemmeno entrare in Aula!”? La passione, in politica – se non muta nel patetico del vecchio che vuol sembrare giovane, preservato dai suoi anni e dal senso del ridicolo – ha la cifra dell’ironia. Così a sinistra. Così al centro. Così tra preti e scrittori. Così pure a destra. E quando i missini s’affannavano per ore, figurarsi, a disegnare strategie – ma la base, la base che dice? – usciva sempre dalla stanza affollata Pinuccio Tatarella, andava di là, prendeva il telefono e chiamava un vecchio camerata di Bari suo amico, a nome Peppino La Base. “Peppi’, tu che dici?”. “Pinu’, so’ d’accordo con te”. E trionfante

    Tatarella rientrava nel vociante manipolo degli adunati: “Tranquilli, la base è con noi…”.
    Di tutto questo, di questo agitarsi d’intelligenza e di passione, Macaluso e i suoi novant’anni, che oggi a Palazzo Madama saranno festeggiati, presente il suo amico Napolitano (a proposito di anni: ma qui la passione è sottoposta all’esercizio della pazienza), sono metafora perfetta e invidiabile. La sinistra, in Italia, è diventata quasi un’opera buffa, che confonde capo e coda, valori e codardia, opportunismi e coraggio. Fili che pendono, rivoli spersi, coriandoli da festa e da dopofestival. Né punto né virgola. Ecco, Macaluso è uno che tiene il punto, lo fissa sulla carta, che avendo attraversato la storia della sinistra sa che le cose essenziali non possono essere svalvolate memorie; che la giustizia è una corda che se si spezza si spezza per tutti – non utile solo per impiccare le altrui storie, ma a volte anche per arrampicarsi e uscire fuori dal fossato; sa che il compagno Boccadutri non si sarebbe fatto impressionare da un articolo di giornale; sa che c’è pure una miniera nella storia delle persone – e il buio e il duro della pietra e l’aria che manca e la polvere che mangia i polmoni e il sudore che corre lungo il corpo hanno a che fare con la politica, della sinistra soprattutto, se la sinistra è in grado di onorare ciò che è stata, non con la retorica. E con la sua memoria, simile, adesso, a un budino tremolante rovesciato di malagrazia su un piatto. La passione ha fatica infinita e molte vite dietro, mica il palcoscenico del Valle occupato. La passione, pure, ha parole che spesso dà fastidio sentire, per quelli che se ne sono costruita una solo a misura del proprio happy hour.

    E’ l’èra della giovinezza – una frescaccia che opportunamente per sempre farà rima con quella “primavera di bellezza” che aveva davanti inverni gelidi di fame e pianto. O stanno – ignorando la cosa, si capisce, stanno – certi ardimentosi balilla come in un verso di Majakovskij: “Ringiovanite tutti! / Presto, / scuotetevi di dosso l’anima canuta”. Patetico non è occupare la scena, patetico è come si occupa la scena che resta. La passione ha condotto Macaluso a novant’anni – lì i suoi passi, i libri, il sogghigno divertito di fronte alle altrui scemenze con elegante foulard soffocate. Così che per tre, chi poteva, i trenta anni invocati dalla paura sono stati moltiplicati – novanta solo per i ragionieri di scarsa passione. Per chi sa davvero contare, adesso solo trenta per tre sono, gli anni di Emanuele Macaluso.