Nomine e potere secondo Matteo
Le nomine nelle partecipazioni statali: un rituale da Prima Repubblica diventa il vero rito di passaggio, una prova di maturità e di forza per Matteo Renzi. Il capo del governo ha offerto tre tracce ai segugi delle poltrone: avvicendamento, quote rosa e strategie. Chi ama il gioco degli identikit si può sbizzarrire, ma è un vero azzardo. Occorre rinnovare i vertici di 14 società controllate direttamente e 35 indirettamente. I posti da assegnare sono oltre trecento, tra presidenti, amministratori delegati, consiglieri, sindaci e tutte le figure previste da una governance fattasi sempre più barocca, ma non per questo più trasparente.
Le nomine nelle partecipazioni statali: un rituale da Prima Repubblica diventa il vero rito di passaggio, una prova di maturità e di forza per Matteo Renzi. Il capo del governo ha offerto tre tracce ai segugi delle poltrone: avvicendamento, quote rosa e strategie. Chi ama il gioco degli identikit si può sbizzarrire, ma è un vero azzardo. Occorre rinnovare i vertici di 14 società controllate direttamente e 35 indirettamente. I posti da assegnare sono oltre trecento, tra presidenti, amministratori delegati, consiglieri, sindaci e tutte le figure previste da una governance fattasi sempre più barocca, ma non per questo più trasparente. I tempi stringono, le liste vanno depositate entro metà del prossimo mese e i faldoni non sono ancora giunti sulle scrivanie che contano.
Riusciranno Paolo Scaroni e Fulvio Conti a restare all’Eni e all’Enel magari come presidenti? Si salverà il super-ferroviere Mauro Moretti che ha difeso il proprio appannaggio o verrà punito per lesa maestà? Flavio Cattaneo lascia una Terna piena di utili anche se grazie alle tariffe pubbliche; Massimo Sarmi ha trasformato le Poste in una semi-banca e l’ha portata in Alitalia, entrambi chiedono un premio. Che dire poi del poliziotto capo Gianni De Gennaro alla Finmeccanica, dopo le allusioni del capo del governo al “metodo De Gennaro”? E infine la Rai, croce e delizia di ogni cambio di stagione politica, finirà anch’essa nel carosello delle nomine? Domande che turbano i sogni degli interessati e riempiono le pagine dei giornali, i sussurri di corridoio.
Un tempo c’era il tavolo di Palazzo Chigi sul quale i rappresentanti dei partiti depositavano i foglietti con i nomi. Poi c’è stata la merchant bank. Sono passati i Letta (Gianni) e i Catricalà. O il metodo Bisignani, un po’ vero un po’ millantato. Adesso né tavoli né strapuntini, Palazzo Chigi è semivuoto, ci sono solo lui, Renzi, nella stanza accanto Luca Lotti, poi Graziano Delrio e Maria Elena Boschi. E i dossier a chi vanno? “Non lo so, io non so più a chi rivolgermi”, racconta un manager da tempo dentro l’ingranaggio delle nomine. E’ lo stile Renzi, sostiene chi lo conosce da vicino. Non vuol farsi condizionare, è geloso delle sue prerogative, ha un gran giudizio di sé o ha paura di finire in trappola? Un po’ l’uno un po’ l’altro, certo ci tiene a restare con le mani libere.
La distribuzione delle spoglie è particolarmente complessa. Dimentichiamo luoghi comuni tipo il manuale Cencelli, la lottizzazione, i boiardi di stato, l’occupazione dei partiti, stilemi che rimbalzano dalle pagine del passato. Perché un cambiamento forte è avvenuto negli anni 90 grazie alle privatizzazioni, alla fine dello stato industriale e al ruolo che ha avuto Mario Draghi. In quel periodo la stanza dei bottoni era al Tesoro, esattamente nell’ufficio del direttore generale. Non tutte le scelte sono state azzeccate, ma tutte hanno portato al vertice delle aziende già pubbliche manager veri. Nel 1996, primo presidente dell’Enel che va in Borsa è stato Franco Tatò, che veniva da Olivetti e Mondadori, tanto per fare un nome. La peggiore instabilità manageriale s’è vista in Telecom Italia, ma per la verità a opera dei privati più che dei governi i quali hanno continuato a metterci lo zampino. La seconda novità è l’irrompere del mercato. Sono entrati azionisti privati, spesso capitali famigliari attenti a staccare pingui cedole o fondi d’investimento che hanno messo sotto tiro sia il management sia la proprietà, con alterne fortune, all’Enel o all’Eni. La crisi da un lato ha fatto cadere quasi ovunque il valore delle società, dall’altro ha imposto la riduzione dei debiti, legando le mani al management. Quanto al Tesoro, ha incassato da Eni, Enel, Terna e Finmeccanica lauti profitti che sono finiti nel calderone della spesa pubblica. Le prossime scelte, dunque, dovranno rispondere a una pluralità di interessi: il governo, i partiti oggi più deboli ma non meno rapaci, le ambizioni di manager che hanno goduto di molta autonomia, il mercato, le lobby locali e quelle internazionali. Senza dimenticare la magistratura. Giudici e pubblici inquisitori possono fare e disfare le carriere di un candidato. Tuttavia, l’operazione pulizia lanciata già da Enrico Letta rischia di trasformarsi in un boomerang, ha scritto ieri il Wall Street Journal: “Gli investitori debbono fare attenzione: il governo vuole stabilire il diritto del consiglio a rimuovere consiglieri sospettati di illeciti, ma tali norme non si adattano alla lungaggine del sistema finanziario italiano”. Banche d’affari e fondi hanno inviato lettere e note sia ai vertici delle imprese sia al governo per invitare a scelte ponderate. Dunque, oggi più di un tempo, si tratta di combinare in un puzzle poteri spesso in conflitto. Il processo non è trasparente, ma meno misterioso di quel che s’immagina.
Al ministero dell’Economia sono all’opera i cacciatori di teste della Spencer Stuart e della Korn Ferry. Li ha lasciati in eredità Fabrizio Saccomanni e hanno passato in rassegna i curricula o le autocandidature che arrivano online, incrociando i dati per verificare il merito e gli eventuali conflitti d’interesse. I risultati del loro lavoro sono negli uffici di Francesco Parlato capo della direzione finanza e privatizzazioni e di Vincenzo La Via, direttore generale del Tesoro. Per conto del ministro Pier Carlo Padoan la pratica viene seguita da Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica, già consigliere economico di Enrico Letta. Una sorpresa negativa riguarda le quote rosa. Poche sono state le manifestazioni d’interesse e ancor meno i profili adatti. Un bel grattacapo, dunque, perché in ogni caso occorre aumentare la presenza femminile nei consigli d’amministrazione. Il Tesoro è l’azionista di riferimento, quindi formalmente spetta a lui fare i nomi, ma il potere decisionale è del capo del governo. E qui le cose si fanno poco istituzionali. E’ stato scritto che Renzi si è affidato al suo amico Marco Carrai ed è vero che, in una prima fase, l’uomo d’affari fiorentino, paragonato a Peter Mandelson (“il principe delle tenebre” di Tony Blair), aveva il carnet fitto di incontri e cene come quelle organizzate dall’imprenditore torinese Giuseppe Recchi, presidente dell’Eni pronto a lasciare la poltrona per quella di Telecom Italia dove sfida il grande ritorno di Vito Gamberale. Carrai ha fatto un passo indietro sotto i colpi della macchina mediatico-giudiziaria. Tutti i nostri interlocutori, però, sono pronti a scommettere che nel momento decisivo e sulle scelte più scottanti il presidente del Consiglio chiamerà “Marchino” per avere la sua opinione. Lo stesso vale per l’amico finanziere Davide Serra che da Londra ha avuto un ruolo importante nel “vendere” l’Italia renziana e spinge affinché il rinnovamento s’incarni anche nella scelta di alcuni uomini di esperienza e caratura internazionali. Qualcuno si spinge a ipotizzare veri colpi di teatro all’insegna della mondializzazione: per esempio un inglese in Finmeccanica visto il radicamento nelle isole britanniche con Westland o uno spagnolo all’Enel che controlla Endesa (in consiglio c’è già Pedro Solbes come indipendente).
Ma chi aprirà i faldoni a Palazzo Chigi? A Lotti spetta un primo screening poi tocca a Delrio, ulteriore filtro prima di consegnare a Renzi le proposte tra le quali toccherà a lui scegliere, sentito il ministro Padoan. Tutti sono convinti che il cambiamento sarà molto vasto. E’ un passaggio decisivo tanto quanto il tre per cento e la riforma elettorale. Renzi è atteso al varco.
L’uomo andato al potere brandendo la rottamazione non può rinviare come Letta o limitarsi a un carosello di facciata. E’ chiaro, dunque, che rischia di più chi da più tempo occupa la stessa poltrona: Scaroni, Conti, Sarmi, Cattaneo innanzitutto. Senza dimenticare che sono stati tutti nominati in èra Berlusconi. E’ vero, non c’è un limite di mandato, anche se Linda Lanzillotta ha proposto non più di tre esercizi. E’ vero, se vale la logica dei privati, non c’è motivo di cambiare chi fa bene, e per Scaroni valgono ragioni di emergenza energetica. Tuttavia nelle grandi banche e compagnie multinazionali la crisi ha provocato un vasto ricambio dei gruppi dirigenti, spesso con un passaggio generazionale. Dunque, la resistenza di Scaroni s’è caricata di un valore simbolico. Renzi vuole attirare gli italiani di successo che si sono fatti conoscere nel mondo. Ha provato offrendo il ministero dello sviluppo ad Andrea Guerra di Luxottica ed è rimasto contrariato dal suo rifiuto. Continua il corteggiamento per interposta persona a Vittorio Colao, il capo di Vodafone dove ha dato e ottenuto il massimo: per lui si pensa all’Eni anche tenendo conto delle sue ottime relazioni transatlantiche. Chi non lo vuole, sottolinea lo scarso senso politico dell’ex McKinsey boy: lo ha dimostrato alla Rcs e, dice un osservatore dalla lingua puntuta, “se ha perso la sua battaglia con Paolo Mieli figuriamoci con Vladimir Putin”. Perché oggi alcune cariche (Eni, Finmeccanica) entrano nel complesso equilibrio geopolitico della Guerra fredda 2.0. Un modo per rendere meno traumatico il passaggio è il rinnovamento nella continuità, metodo togliattiano, forse troppo per Renzi.
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